Diciassette dicembre 2015: è questa una delle date che hanno segnato il percorso della Libia post-Gheddafi. A Skhirat, in Marocco, sotto l’egida dell’Onu, i delegati del Congresso di Tripoli (il Parlamento islamista) e quelli della Camera di Tobruk (il Parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale) firmarono l’accordo per la creazione di un «governo di accordo nazionale» sulla base delle proposte formulate nei mesi precedenti dalle Nazioni Unite, che, impegnate sul campo con l’inviato speciale Bernardino Leon, individuavano in Fayez al-Sarraj, tripolino, 56 anni, la figura giusta per guidare il nuovo esecutivo. La strada di Sarraj e del “suo” governo non è mai stata facile: rivalità interne, riserve e ripicche sulle liste dei ministri, rivendicazioni delle fazioni e ambizioni personali – a volte smisurate, come quella del generale Khalifa Haftar, capo delle Forze armate vicino a Tubruk e a lungo il principale ostacolo nella formazione della compagine, di cui avrebbe voluto far parte come ministro della Difesa e da cui, invece è stato escluso – hanno fatto slittare per settimane l’effettiva nascita del governo, facendo ripetutamente mancare di ratifica dei rispettivi Parlamenti e ripetutamente collocando la Libia sull’orlo del precipizio. Tanto da costringere l’Onu a un intervento drastico: il 14 gennaio i membri del Consiglio di Sicurezza si sono riuniti e hanno diffuso un comunicato per esprimere pieno sostegno al governo «legittimo» del premier incaricato Sarraj e ai suoi ministri; chiedere che non vengano più considerate le «istituzioni parallele» che «pretendono di rappresentare l’autorità legittima»; e invitare il premier Sarraj a stabilirsi a Tripoli, «dove il governo di intesa nazionale dovrebbe avere la sua sede». La reazione degli islamisti di Tripoli è stata immediata: nessun riconoscimento a un governo «imposto dall’esterno». Ieri, tra spari e tensioni, l’arrivo dei membri dell’esecutivo. (