Alcune sono "famose", ridotte a personaggi di cui tutti noi conosciamo volti e nomi, come se la loro tragedia fosse una fiction... Di altre invece non si ricorda nulla perché la loro storia di sopraffazione si consuma nel silenzio di quattro mura, anche per anni. Sono le donne vittime di violenza da parte dei loro uomini, sempre più numerose in questa Italia che divarica la sua storia in due opposte direzioni: da una parte il progresso, la modernità; dall’altra l’imbarbarimento, l’escalation di vessazioni o addirittura omicidi passionali. Siamo solo a metà del 2012 ma già un’ottantina di donne sono state uccise dal loro partner, secondo una tendenza costante al rialzo: 122 nel 2009, 128 nel 2010, 137 nel 2011. Punte dell’iceberg di una violenza che, anche quando non sfocia nell’omicidio, piega o spezza una donna su tre (Istat). «Ovvio allora che continuare a soccorrere solo le donne non basta: occorre aiutare gli uomini, perché smettere si può». Lo sa bene Michela Bonora, 26 anni, tra i pochissimi esperti in Italia in strategie anti-violenza e conduttrice per la Caritas a Rovereto (Trento) e a Bolzano degli unici gruppi di aiuto a uomini "offender".«Abbiamo appena concluso con successo il primo ciclo di 28 sedute con venti uomini maltrattanti – racconta – e a novembre riprenderemo». Certo non è facile per nessuno ammettere un comportamento sbagliato, tanto meno per un maschio, e ancor meno per un maschio violento, eppure – e questa è già una buona notizia – i venti iscritti (dieci in Trentino e dieci in Alto Adige) erano quasi tutti volontari. E il 75% ha ottenuto risultati evidenti. «Ci occupiamo di "violenza di genere" solo nelle relazioni affettive – continua l’esperta – ovvero ai danni di mogli o conviventi o fidanzate o ex», in fondo la più difficile da ammettere da parte dei maltrattanti e pure delle vittime, che spesso preferiscono tacere. Il 31,9% delle italiane ha subito almeno una volta nella vita una violenza fisica, dice l’Istat, ma il 93% non denuncia. «E questo è grave per gli uomini, perché non sai come agganciarli, e quindi curarli», spiega Michela Bonora. Una lacuna tutta italiana, visto che siamo uno dei sei Paesi europei rimasti totalmente indietro nei programmi anti-violenza, sviluppatissimi all’estero. «In Gran Bretagna la legge prevede i gruppi d’aiuto in alternativa alla pena. Lo stesso avviene in Spagna dal 2004: il giudice può decidere la partecipazione obbligatoria a un programma di recupero dopo una sola condanna per "violenza di genere". Non a caso nel 2012 in Spagna sono state uccise finora 16 donne contro le circa 80 in Italia».In Europa e negli Usa la sperimentazione ha decenni di vita. «Io mi sono formata in Spagna e in Finlandia, adattando l’esperienza straniera alla nostra realtà, perché il sistema culturale finlandese è troppo avanzato, lì le pari opportunità sono già acquisite mentre qui bisogna ancora fare accettare la parità e la reciprocità dei doveri...». Soprattutto è necessario prevenire, quindi partire dall’educazione dei giovani già nelle scuole, perché imparino presto a «gestire le emozioni e vivere il conflitto in modo sano». E poi curare gli adulti già diventati "offender", «e questa è la parte più innovativa, per la quale a Bolzano e a Rovereto adottiamo il metodo
Change inglese incrociato con quello spagnolo». Talmente innovativa che di percorsi operativi, oltre a quello del Trentino Alto Adige, ne esistono solo a Firenze e (dal prossimo autunno) a Modena.Secondo i criteri europei, il corso dura sei mesi, modulato in 28 sedute di gruppo, e i due conduttori sono sempre un uomo e una donna, così Michela opera con il collega Massimo Mery, che si è formato in Austria. Non si parla mai di «colpe» ma di «responsabilità», eppure all’inizio i maltrattanti negano, minimizzano, si difendono. Non sanno neanche definire la violenza, «per molti le minacce, le urla, l’isolamento, il controllo del conto corrente, la proibizione di lavorare non sono nemmeno abusi». Poi però, con una dinamica «a specchio», si vedono negli altri e basta che il primo ammetta perché tutti inizino. Alla fine chiedono di restare, «perché in genere sono uomini molto isolati, e durante i gruppi emergono altri problemi irrisolti...». In realtà c’è ancora tutta una cultura da formare: «A volte, quando accompagno le donne picchiate a fare denuncia, le forze dell’ordine consigliano "signora, torni a casa, non è successo nulla"», testimonia l’operatrice della Caritas. Insomma, ancora si sottovalutano segnali di un malessere che spesso può sfociare in tragedia. Ecco perché nel nostro Paese, dove nessuna legge impone ai violenti di curarsi, «il nostro appello è al territorio, perché li convogli da noi: mi riferisco a forze dell’ordine, servizi sociali e sanitari, parroci, avvocati, magistrati, consultori». Proprio da un consultorio è stato inviato Orazio (vedi intervista a lato), molti altri dall’Uepe, l’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia che ha in carico persone con misure alternative al carcere.Ma che cosa rende violenti tanti uomini? «La paura, fanno fatica a rapportarsi con le nuove donne e per questo ricorrono allo strumento più ancestrale, la forza bruta, specie quando vengono lasciati». Perciò si lavora sull’autostima: molti non credono di poter cambiare.