lunedì 26 maggio 2014
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​La dignità si sgretola come crosta e cade a pezzi dai muri delle case popolari in via dei Cinquecento al Corvetto. Gli intonaci si frantumano al contatto con le dita della mano, mentre l’incuria sbocconcella spigoli di balcone e i citofoni dormono il silenzio eterno dello sfasciume. I soffitti negli ingressi delle portinerie o delle scale si sfogliano come pelle sfiorita, tanto che è giunto il momento che qualcuno dovrebbe esporre avvisi di allerta: «Attenzione, voi che passate di qua: puntate il naso al cielo e fatevi il segno della croce». E non per osservare, come bambini curiosi, gli alberelli che crescono sui tetti delle case Aler, ma per proteggere la propria testa da lastre di calcinacci che, da un momento all’altro, potrebbero staccarsi da soffitti corrosi dall’acido più devastante che esiste: la negligenza. La trascuratezza e l’abbandono che trasformano ogni cosa in umiliazione, sfasciano il bene comune, ma soprattutto spalancano l’uscio a un destino di esclusione e di solitudine per gli uomini e le donne che in queste case ci abitano. Chi avendone il pieno diritto, ma pure chi quel diritto se lo è preso, sbagliando, con la prepotenza dell’occupazione abusiva.

(Case popolari in via dei Cinquecento)Erano case popolari un tempo, belle come un sogno irraggiungibile. Una mano conosciuta, oggi, su un muro ha scritto: «Quando la casa è un lusso, occupare è necessario». Hanno dovuto sigillare, murare, sprangare le porte e accecare le finestre degli appartamenti svuotati da un funerale per cercare di impedire l’assalto all’occupazione selvaggia. Ma non è stato sufficiente a frenare il racket che controlla questa attività. Adesso che l’orologio segna quasi mezzogiorno e mezzo da una fatiscente portineria sbucano una giovane coppia ancora con lo sbadiglio sulla bocca. Lui jeans e maglietta bianca, bicipiti tatuati e un fisico da toro che sembra Marlon Brando in «Fronte del porto». Lei in fusò e camiciola stile Saint Tropez. Il colore della pelle dei due è quello di chi fuma troppo e non conosce il sole e vive la notte. Vagabondano come in un film di Fellini per il quadrilatero di via Ravenna, il confine tra città e campagna, dove ci sono le scuole che s’affacciano su verde e abbandono. Un buon orizzonte da scrutare per gli occhi dei bambini che qui studiano, crescono e magari, domani, diventeranno anche loro come quelle figure che qui attorno si muovono circospette a vedetta dei loro traffici e affari, o barcollanti come ubriache di qualcosa.

Corvetto, periferia sud di Milano, snodo viario a sette minuti dalla “bela Madunina”. Quartiere “scavalcato” da quella pista di cemento che getta l’Autostrada del sole proprio dentro la città. Negli anni Trenta, l’ufficio per l’Edilizia dell’istituto autonomo delle case popolari, affida all’idea di un architetto il progetto di edificazione di una cinquantina di palazzine. Il concetto è l’armonia e la quiete, seppur sono case economiche: vivere il proprio appartamento senza avere gli occhi del vicino piantati nel piatto della propria minestra, ma un bel giardino per separare. Provate a immaginare, facendo un salto nel passato, quando in quel lontano Novecento, questi alloggi del “quartiere Mazzini” venivano consegnati alle prime famiglie assegnatarie. L’emozione doveva essere tanta negli occhi di quelle persone che entravano nella loro prima vera casa con, rarità per quei tempi, portineria e servizi igienici. Un lusso. E chi mai se lo poteva concedere, allora, il bagno con l’acqua corrente dentro la propria casa? Gli anni passano e questi edifici popolari perdono la loro felicità. Con le case le persone invecchiano e ci lasciano. I loro appartamenti diventano luoghi di salvataggio per tanti naufraghi sociali che se ne appropriano abusivamente: non si fa in tempo a iniziare un funerale che la voce già vola per il quartiere e nell’appartamento subentra qualcun altro. «Il mio è un quartiere a forte prevalenza di anziani, molto spesso soli, e poi extracomunitari e situazioni sociali delicate: il padre a San Vittore, il figlio al Beccaria. Nel 2013 ho battezzato 26 bambini e celebrato 150 funerali. Su, diciamo, 14mila residenti – racconta don Antonio Longoni, parroco di San Michele Arcangelo e Santa Rita in piazzale Gabrio Rosa –. Ci manca un ricambio generazionale. I bambini sono pochi: domenica scorsa ho celebrato 28 Prime Comunioni. Gli anziani ci lasciano, le case vengono murate. Ma la microcriminalità è sotto gli occhi di tutti: spaccio, prostituzione, bullismo e risse. Il vigile di quartiere è rimasto un sogno nel cassetto. Le istituzioni? Non vedo granché. Qualche cosina, ma niente di più. La parrocchia muove iniziative con il centro culturale “Insieme” e la cooperativa “La strada”. Penso al futuro e mi chiedo che cosa ne sarà un domani di questo Corvetto?».

(Il parroco della chiesa di San Michele Arcangelo e Santa Rita, don Antonio Longoni)
Titoli dei giornali lo hanno dipinto come il quartiere dei “ragazzi gangster”, spaccio e cazzotti. Addirittura è stato raccontato come lo “Scampia” meneghino, dal popoloso quartiere di Napoli prigioniero della camorra. Episodi che certo non hanno reso onore all’immagine del Corvetto ce ne sono stati, come accadde nell’agosto di quattro anni fa, quando un vigile urbano venne aggredito da una squadraccia di persone intervenuta a liberare un giovane del quartiere, arrestato perché responsabile di un’altra aggressione. Sarà pure una «malavita da quattro soldi», come ci dice qualcuno, però tiene in scacco un bel pezzo di quartiere.La precedente amministrazione comunale di Letizia Moratti aveva pensato di affrontare il degrado sicurezza del quartiere escogitando addirittura il coprifuoco come per una terra di lontana frontiera, un Far West assediato dagli indiani cattivi dallo scalpo facile. Fa niente se poi a Milano di quartieri con i loro “mal di pancia” ce n’è un po’ dappertutto, e soprattutto – va da sé – se poi queste terre di nessuno sono sempre segnate dalla trascuratezza di chi, invece, dovrebbe attivarsi per migliorarne la qualità della vita e non lasciare libero sfogo all’abbandono e all’incuria. Degrado è semplicemente uguale a brutto ed è il primo cedimento che porta anche al degrado della sicurezza. Come quel pannello arrugginito e sbiadito, curiosamente solo nella parte della “stazione appaltante”, firmato Ministero infrastrutture e trasporti, Regione Lombardia, Comune di Milano, Aler Milano, per l’“intervento per il recupero sottotetti ad uso abitativo per 54 alloggi” del quartiere Mazzini, via dei Cinquecento e via Panigarola. Un appalto da 3 milioni e rotti di euro, con i lavori d’inizi previsti il 26 gennaio 2006, da chiudere a luglio 2008. Semplicemente abbandonato lì da sei anni: e lì resta a far da sostegno alle erbacce che crescono alzandosi sempre più verso il cielo.

L’ultimo episodio di vandalismo è stato qualche giorno fa, di notte, nei pressi di una discoteca: qualcuno s’è divertito a sfasciare gli specchietti a un bel po’ di automobili. «Le periferie sono tutte uguali. Non descriveteci come un quartiere problematico. Sì abbiamo dei problemi, non dobbiamo chiudere gli occhi. Ma ci sono anche le cose buone. Io credo che il degrado sociale che oggi vediamo attorno a noi, e non solo in questo nostro quartiere, diventerà sempre più degrado se lasciamo andare le cose in un certo modo. Più il degrado avanza e più si dà vita a quei fenomeni legati al non avere più rispetto né per se stessi, né per l’ambiente in cui si vive, né verso le persone che ci stanno attorno. La mia parrocchia conta 5.000 famiglie, la metà vivono nelle case Aler. Fatiscenti, lasciate degradare e pochissimo ristrutturate. Ve lo immaginate che cosa vuol dire per le 2.500 famiglie che ci vivono, in quelle case popolari che si sgretolano? Sa quanti anziani là dentro vivono da soli la loro depressione, per lo stato in cui si sono venuti a trovare? – dice don Antonio –. La parrocchia resta il punto di riferimento. Ogni settimana l’opera san Vincenzo distribuisce un’ottantina di pacchi viveri ai più bisognosi, che arrivano anche a famiglie di fede islamica». La chiesa di San Michele Arcangelo e Santa Rita, proprio nel cuore del quartiere fa da spartiacque tra il bello e il degrado. Il lungo viale Omero, il cammino dei Monaci, che si snoda fin oltre l’abbazia di Chiaravalle, lo chiamano «il lungomare». La gente passeggia o riposa sulle panchine. Come tanti Ulisse, in cerca di un approdo a portata di mano: la dignità.

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