Per salvare vite umane nel Mediterraneo non serve una “patente” da concedere alle navi di soccorso. E le Ong che effettuano operazioni umanitarie non devono coordinarsi con i guardacoste libici, né condurre i naufraghi in Tunisia e tantomeno a Malta, che non ha sottoscritto gli accordi internazionali per il salvataggio. Dopo due anni di indagini la Procura di Agrigento ha chiesto l’archiviazione per l’equipaggio della Mare Jonio, il rimorchiatore dell’italiana “Mediterranea” che il 10 maggio 2019 «trasportavano o comunque compivano atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio italiano di 30 cittadini extracomunitari».
Un’accusa che ora la procura di Agrigento chiede al giudice delle indagini preliminari di estinguere. Sotto investigazione erano finiti il capomissione Giuseppe Caccia e il comandante Massimiliano Napolitano, iscritti nel registro degli indagati. I magistrati dopo avere sentito ufficiali della Guardia costiera, funzionari delle Nazioni Unite, raccolto i verbali della squadra mobile e le annotazioni della Capitaneria di porto.
A firmare la richiesta di archiviazione sono il procuratore aggiunto Salvatore Vella e il pm Cecilia Baravelli. I magistrati hanno messo a nudo tutte le contraddizioni normative, su cui hanno fatto leva scelte politiche che hanno permesso in questi anni al nostro Paese di confezionare, con fondi italiani ed europei, l’area di ricerca e soccorso libica, senza però che vi sia una normativa italiana o internazionale che autorizzi lo sbarco dei migranti a Tripoli. Non solo: «Il rimorchiatore Mare Jonio non era tenuto a dotarsi di alcuna certificazione Sar (ricerca e soccorso, ndr) per le attività di salvataggio di vite umane in mare». Al momento dei fatti, sottolinea la Procura, «non esisteva nell’ordinamento italiano alcuna preventiva certificazione diretta alle imbarcazioni civili per lo svolgimento di tale attività». La normativa, infatti, «parla di "navi da salvataggio" ma fa riferimento alle imbarcazioni armate per il recupero e salvataggio di altre imbarcazioni e non al salvataggio di vite umane».
Appena compiuto il salvataggio, le autorità italiane hanno contestato al comandante e al capomissione di non essersi coordinati con la centrale di coordinamento libica, costata al nostro Paese oltre 2 milioni di euro per la sola attivazione degli uffici e la registrazione nel database internazionale. Nel corso degli interrogatori gli indagati hanno spiegato di non avere mai avuto intenzione di riconsegnare i profughi alla Libia, che del resto non rispondevano alle comunicazioni. «La condotta tenuta dalle Autorità Sar libiche non è una eccezione – si legge ancora nell’atto degli inquirenti – infatti non risulta che le Autorità libiche, per le attività di ricerca e soccorso nella propria area Sar, abbiano mai assegnato un Place of safety (Pos, porto sicuro di sbarco, ndr) sul territorio libico ad organizzazioni non governative». Un’affermazione, questa, che la procura trae da una nota inviata ai magistrati direttamente dal Comando Generale delle Capitanerie di Porto.
L’ostilità libica non è però l’unica ragione per non rimettere i naufraghi nelle mani delle autorità libiche. Il 20 giugno 2019 «questo Ufficio richiedeva all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr-Acnur) e, in particolare, all’Ufficio della Rappresentanza Regionale per il Sud Europa, se la Libia possa essere considerata un "Place of safety" (Pos)». Il 3 ottobre arriva la risposta con, in allegato, «un rapporto nel quale, dopo aver ripercorso i conflitti in corso in Libia nell’anno 2019, si esaminava la situazione di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in quei territori». Pagine nel quale l’agenzia Onu documentava torture, abusi, stupri, violenza sessuale, traffico di esseri umani anche da parte di funzionari statali. Pertanto la Libia non può essere ritenuta “luogo sicuro”. E nella missiva ai magistrati Unhcr-Acnur ricordava come «ai comandanti, che si trovano ad assistere persone in situazioni di emergenza in mare, non può essere chiesto, ordinato, e gli stessi non possono sentirsi costretti, a sbarcare in Libia le persone soccorse, per paura di incorrere in sanzioni o ritardi nell’assegnazione di un porto sicuro».
Anche per questa ragione non si può sanzionare la Mare Jonio che «non avvisò dell’evento Sar il Centro di coordinamento e soccorso libico, né al momento dell’avvistamento del gommone, né durante le operazioni di salvataggio, né successivamente».
L’intervento umanitario, in mancanza di prove di contatti tra Ong e trafficanti, dunque non è mai sanzionabile: «La situazione di pericolo in cui vengono posti i migranti, infatti, che determina lo stato di necessità, è creata dai trafficanti». Che in Libia continuano ad agire pressoché indisturbati.