giovedì 8 ottobre 2015
​Ritirati gli emendamenti della minoranza. La riforma va avanti e l'articolo 21 sull'elezione del capo dello Stato passa con 161 sì. 30 di Fi votano con la maggioranza.
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Crescono gli ostacoli, ma la maggioranza – tra un doppio salto mortale e qualche slalom tra gli emendamenti ritirati – supera anche la spinosa questione dell’elezione del presidente della Repubblica. Passano anche l’articolo 21 e le norme transitorie, su cui erano rimaste divergenze con la sinistra dem. Non senza traumi. Di fatto, nell’ennesima giornata di calvario al Senato, traballa l’intesa tra le forze della coalizione, ma si ricompatta il Pd, dopo che con la sua ultima prova di forza, il partito del premier mette in atto una reazione a catena che scompone gli equilibri di Palazzo Madama.  Ma per comprendere le dinamiche della complessa giornata occorre riavvolgere il nastro. La resistenza passiva delle opposizioni fa sì che gli articoli 12, 13, 14 e 16 arrivino in porto, sia pure con voti spesso molto risicati, ma senza grossi intoppi. Restano gli echi delle polemiche e le critiche alla presidenza del Senato, con Pietro Grasso bersaglio numero uno delle opposizioni. La crepa arriva all’articolo 17, sul quale la minoranza democratica presenta un emendamento che regola la deliberazione dello stato di guerra, a firma di Nerina Dirindin. Con lei si ricompatta la minoranza dei senatori di largo del Nazareno. Si tratta dei 28 voti che il governo non può permettersi di perdere per strada. Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, tenta di convincere i colleghi a recedere. Riesce solo con 14 di loro. Il tabellone si illumina ma una trentina di forzisti sembra correre in soccorso. L’emendamento viene bocciato e gli azzurri non sono decisivi. Nel Pd lo rimarcano in molti. Ma è l’inizio di una nuova battaglia destinata a segnare l’ennesima giornata di lavori, tra le accuse e i sospetti che si sia trattato di un soccorso per evitare la caduta del governo Renzi. Così, per evitare nuove sorprese, l’esecutivo chiede una pausa e studia con la sinistra dem una soluzione condivisa. L’accordo viene raggiunto. Gotor annuncia il ritiro di tutti gli emendamenti della minoranza antirenziana. Ma l’atmosfera è tesa e l’opposizione, che si era compattata 24 ore prima, si disgrega. Paolo Romani, capogruppo azzurro, è tra quelli che votano con la compagine di governo. Il vicepresidente del Senato leghista Roberto Calderoli ironizza: «È risorto il Patto del Nazareno. Questa sarebbe la dura opposizione di Forza Italia? 'Ma mi facciano il piacere!' avrebbe detto il povero Totò». Ma il Carroccio va oltre e minaccia le future alleanze.  Intanto, nell’immediato la lettera univoca al Colle si perde sullo sfondo delle polemiche e l’aula riparte con il delicato articolo 21. Ma l’intesa nel Pd questa volta pare tenere. A sorpresa, però, non c’è tra il Pd e Ap. Andrea Augello e Gaetano Quagliariello annunciano il voto contrario. La tensione in aula cresce. In discussione c’è il quorum per l’elezione del capo dello Stato che passa dalla maggioranza assoluta prevista attualmente ai 3 quinti dei votanti. Un modo per garantire le opposizioni, penalizzate dall’Italicum, dicono le minoranze, a partire da quella del Pd. Un modo che non convince molti nell’aula di Palazzo Madama, dove nei banchi del governo si riprende in mano il pallottoliere, con il timore che i conti possano non tornare.  E però non tutto il dissenso viene espresso allo stesso modo. Le opposizioni non partecipano al voto. La Lega abbandona i lavori, mentre M5S resta senza votare per mettere la faccia sul dissenso. Al momento dello scrutinio, anche i senatori di Sel e Fi si allineano alla scelta del Carroccio. Ma l’articolo supera l’ostacolo con 161 voti a favore, 3 contrari e 5 astenuti. Poco più tardi, nel segreto dell’urna, la maggioranza cala a 155 voti su un emendamento di Calderoli che ottiene dal presidente Grasso il sì al voto segreto. E il nervosismo si legge sui volti tesi tra i banchi del governo e del Pd.
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