sabato 1 aprile 2017
Due libri che compiono l'elogio dello spaesamento e degli imprevisti del cammino
Viaggiare, cioè perdere la strada
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In cosa consiste lo spaesamento? Che tipo d’esperienza, non solo psicologica, ma anche antropologica ed estetica, può implicare? E soprattutto: in vista di quale filosofia della vita?

Qualche risposta ci arriva ora da un libro singolarissimo, felicemente inclassificabile, di Mauro Francesco Minervino, intitolato, appunto, Stradario di uno spaesato, che appare nella collana ' Tempo presente' diretta da Gianluca Barbera per Melville Edizioni (pp. 256, euro 17,50). Minervino, autore per la Rai e collaboratore di Nuovi Argomenti, è uno scrittore vibratile che ricordo per certi suggestivi reportage su Diario, ma è anche, per professione e vocazione, un antropologo culturale che, per altro, ha avuto fecondi rapporti con Marc Augé, il celeberrimo teorico del 'non-luogo'.

Sicché non sorprende che, a monte di questo Stradario, ci sia una precisa idea – che involge anche un giudizio – della contemporaneità: «Sbalzati dalla culla delle tradizioni, è la precarietà generale delle vite individuali e collettive, con la distruzione di ogni relazione durevole tra luoghi e persone, il tratto del nostro tempo ». Col risultato che la dromomania, e cioè – nel vocabolario medico – quel disturbo della psiche che si traduce in frenesia deambulatoria, sta diventando, «nell’irrefrenabilità del moto a luogo», la vera malattia della nostra epoca. Minervino ne è convinto: tanta velocità la stiamo già pagando amaramente, perdendo, con essa, il senso dello spazio e del tempo, del futuro e –insieme – del passato, ma anche quello del «limite del nostro stare al mondo in piccolo».

Ho detto che si tratta d’un libro felicemente inclassificabile: delle sue tante e nutritive innervature saggistiche ho già dato veloce conto. Non di rado guadagnate col concorso dei grandi viaggiatori del passato – che so? il vittoriano amatissimo George Gissing –, o degli scrittori prediletti, si chiamino Cardarelli, Pasolini o Danilo Dolci. Ma non avrei detto nulla, se non aggiungessi che sono le innervature d’una favola autobiografica, al cui fondo troviamo subito il piccolo Minervino, figlio di padre marinaio e poi ferroviere, che è già un fuggiasco «piuttosto selvatico», irresistibilmente attratto «dagli imprevisti stradali, dai binari dei treni, dalla favola dei porti e dalle promesse dei viaggi».

Ecco: «Più il tempo passa, più divento incerto sul da fare; sul cosa, sul come, sul dove. Prendo e giro in macchina. Mi distrae. Sono un uomo spaesato». Un uomo che, ostinatamente, insegue «lontananze », convinto che nessun luogo valga l’altro, poiché, in quanto paesaggio, coagula sempre nello «spazio d’una qualche forma di esistenza umana, rappresentata e descritta da un uomo ad altri uomini».

Minervino è affascinato da quelli che ci restituiscono «un mondo solingo e svisto, secondario e trascurabile», non di rado offeso dall’insolenza malavitosa: «Le ridotte sbandate della Calabria, i mille cantoni smarginati del Sud». E ciò per il fatto che la stessa disposizione del pensare va a coincidere col «perdere la strada in questi posti brutti e revocati, (…) interdetti ». Senza dimenticare, però, l’azzurra e profonda nostalgia per il mare, in virtù della quale, ragazzo, fece meraviglioso «voto di vastità»: che è, poi, nostalgia di ciò che si vive, nel mentre lo si vive. Si tratta, insomma, d’una «geografia dell’irrequietezza»: ogni riferimento a quell’Anatomia dell’irrequietezza, in cui Chatwin andava alla scoperta di se stesso, non è casuale.

Ma attenzione: ci troviamo certamente in Calabria, che Minervino attraversa non solo in macchina per lungo e per largo, la cui capitale sentimentale, ove sempre si ritorna, coincide col paese di Petra, il quale – seppure realissimo nella sua concitazione urbanistica, nella minaccia perenne «di frana e di pericolo inconciliato», marchiato com’è «da un nome duro e sdegnoso » di donna – non è cartografato su nessuna mappa della regione. Questo per dire che Stradario di uno spaesato è anche romanzo: anomalo e spurio quanto si vuole, ma pur sempre romanzo.

Un romanzo in cui, all’improvviso e traducendo Gisseng, ci si può imbattere in un Walter Benjamin che, a Capri, tiene «tra le braccia la sua amante tra i filari delle vigne », mentre noi subito pensiamo a quelle «calabresi sediziose» che, non di rado, qui si affacciano. Un romanzo, s’aggiunga, ove lo spaesamento ha anche il suo rovescio luminoso in una certa vocazione a perdere tempo, così intensificandolo: che è proprio il modo giusto per guadagnarlo davvero. In tal senso, «visionario agrimensore della psiche» e furioso nemico delle accelerazioni della modernità, il vero eroe del libro è Giuseppe Berto, che scoprì la bellezza ancora selvatica di Capo Vaticano e lì vicino, a Ricadi, si costruì, incassata nella pietra, una casa francescana, dove visse e scrisse, per poi farsi seppellire nel camposanto del paese.

Per tutte queste ragioni, diventa quasi naturale integrare la lettura dello Stradario di Minervino con un delizioso libro di Patrick Manoukin, ora tradotto da Ediciclo, e cioè L’arte di perdere tempo, dal significativo e programmatico sottotitolo: «Piccola celebrazione della sosta e degli imprevisti ». Patrick Manoukin, nato nel 1949 e autore noto per i suoi romanzi polizieschi: il quale, a 18 anni, fu capace di percorrere 40.000 km in autostop negli Stati Uniti e in Canada, e nel 1987, dopo aver girato il mondo, di fondare un’agenzia editoriale specializzata nella comunicazione di viaggio.

Manoukin non ha dubbi, sin dalle prime pagine: la componente essenziale d’ogni peregrinazione, più della distanza, è il tempo, che «appartiene alla sfera dell’intimo ». D’altra parte – ed è idea cruciale per capire la filosofia di questo viaggiatore – «la sosta e l’itinerario sono due avventure parallele, ma distinte». Come si tramanda in un antico detto ruandese: «La strada non insegna al viaggiatore ciò che lo attende nelle soste».

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