L'ironia popolare latinoamericana ha coniato una frase fulminante: «Il Brasile è la terra del futuro e continuerà ad esserlo». Il motto – a cui le proteste delle ultime settimane sembrano aver dato nuovo smalto – può essere applicato senza difficoltà all’intero Continente. «A meno che questo non riesca a rompere le successive reincarnazioni di un sottosviluppo di cui la bassa qualità istituzionale è il fattore centrale"» Non è un pessimista Ugo Pipitone, economista italo-messicano del prestigioso Centro de Invenstigación y docencia económicas di Città del Messico. Tutt’altro. Ha il pregio, però, di analizzare la realtà della “sua” America Latina con il rigore distaccato del chirurgo. Che non esita a scavare in profondità per trovare le cause di un male. Così fa Pipitone. Non si lascia ammaliare dalle scintille del
milagro económico: la crescita rapida e dirompente che, negli ultimi decenni, ha risvegliato le nazioni
latinas. Entusiasmando tanti, anche fra gli analisti. «Il futuro luminoso dietro l’angolo, però – scrive Pipitone – è stato annunciato troppe volte, sull’onda del boom, per essere ancora credibile«. Perché – afferma l’economista da ben prima che la “rivolta brasiliana” mettesse in discussione alcuni presupposti del modello – la crescita non è tutto. E
Crescere non basta si intitola infatti il saggio di Pipitone, recentemente uscito in Italia per le eEdizioni dell’Asino, con la prefazione di Goffredo Fofi (pagine 186, euro 15). L’analisi dello studioso parte da un dato oggettivo. «Dal 1870 al 1980 – spiega ad «Avvenire» –, per più di un secolo, l’America Latina è stata la regione con il più intenso livello di crescita economica del mondo. Addirittura più degli Stati Uniti». Eppure, in questo stesso arco temporale, il Continente ha visto i suoi sogni di stabilità, democrazia, prosperità, infrangersi ciclicamente sull’onda di rivoluzioni, colpi di Stato, dittature, insurrezioni e contro-insurrezioni. A differenza dell’Europa, quello appena trascorso è stato per l’America Latina un secolo fin troppo lungo. E sofferto. Ciò significa – sottolinea Pipitone – «che l’aumento del Pil, da solo, non è sufficiente a garantire progresso e sviluppo. A meno che tale incremento non sia accompagnato da altre condizioni, quali una minore polarizzazione sociale, una maggiore integrazione tra settori produttivi e il consolidamento di istituzioni efficaci e socialmente accettabili. Senza queste premesse, nemmeno i boom più sorprendenti consentono ai Paesi di uscire dal sottosviluppo». Il presente latinoamericano, iniziato negli anni Novanta, ha coinciso con una generale ripresa dell’economia dopo il «decennio perduto» e con l’atteso ritorno della democrazia, quanto meno nella sua versione «minima» ma comunque determinante di partiti in competizione e libere elezioni. «Si starà rompendo in questi anni il tempo ciclico in cui la novità è catturata dalla ripetizione, dall’eterno ritorno che riproduce il passato in forme rinnovate?», si domanda Pipitone. Il saggio non offre una risposta univoca ma mette in luce alcuni nodi irrisolti. Quelle forze gravitazionali – le definisce l’economista – che cercano di risucchiare l’America Latina nel buco nero dell’arretratezza. Se sono fattori di fragilità, dal punto di vista economico, l’eccessiva dipendenza dalle esportazione di materie prime e lo scarso dinamismo dei mercati interni, il grande freno allo sviluppo è rappresentato dalle diseguaglianza. Non esiste regione più polarizzata al mondo di quella che si estende a Sud del Rio Bravo. E questo ha ricadute pesantissime sul funzionamento delle istituzioni. Che faticano ad acquisire efficienza, credibilità sociale e indipendenza dal leader di turno. L’onnipresente tentazione populista nella politica latinoamericana e le «presidenze imperiali» affacciatesi sulla scena continentale, da Buenos Aires a Caracas, ne sono la dimostrazione più evidente. Insieme al crescente potere di organizzazioni criminali transazionali capaci di tenere in scacco Stati e cittadini. Per questo, conclude Pipitone, mentre nel Nord del mondo il dilemma è crescere o no, il dilemma centrale dell’America Latina è come crescere. Decenni di storia «indicano da queste parti del mondo che su un’acuta diseguaglianza non si costruisce un’economia dinamica nel lungo periodo né istituzioni decenni. E quindi la crescita economica per l’America Latina è rilevante se contrae le disuguaglianze e corregge eterogeneità strutturali e inefficacia istituzionali che cospirano contro una prospettiva di fuoriuscita dall’arretratezza». Qualcosa in tale direzione è stata indubbiamente fatta. Il cammino verso il futuro, però, è appena all’inizio.