Non passavamo mai il Natale a Susin di Sospirolo, «in mezzo alle amene cime bellunesi», come recitava il volantino pubblicitario dell’Albergo Alpino Fratelli Doglioni, che dava lustro di località turistica a tutto il paese. Faceva troppo freddo nella vecchia casa dei nonni Marchiori, e le due stufette elettriche antidiluviane a pianterrreno emanavano solo un lieve tepore. Le camere da letto che si affacciavano sulla stretta scala che saliva al primo e al secondo piano rimanevano gelide, pervase da quel vago, persistente odor di muffa che si attenuava soltanto nei caldi giorni d’estate.Ma quell’anno decidemmo di sfidare l’inverno, la neve, il freddo. Coperte ne avevamo a sufficienza. Ci saremmo sistemati in cucina. Era grandissima: una stanza fatta a elle, con la parte lunga che si appoggiava alla montagna, oscura e piena di strani insetti che uscivano da misteriosi fori che la nostra Gigia tappava con stracci imbevuti di liquidi puzzolenti. Ai due estremi c’erano due finestrine oblunghe, con robuste sbarre; sotto quella di sinistra troneggiava l’antico lavello di granito, su cui negli anni tante stoviglie si erano infrante. Nel centro, il focolare immenso, il girarrosto, i fuochi sempre ardenti per l’acqua calda, pronta in ogni momento nella vasca oblunga di rame.Attorno al tavolone dell’anticucina, di legno grezzo, ci stavamo tutti seduti; e per terra potevamo stendere dei materassi. Era un tavolo rustico e imponente, ma l’ignoto artigiano che l’aveva costruito ci aveva messo tanti vezzosi cassettini su tutti e due i lati lunghi. Quei cassettini delle sorprese! Pieni di mille cose approdate là in tanti anni: coltelli spuntati con la lama di ferro, che dava alla frutta un imprevisto sapore di ruggine, utensili vecchissimi di cui nessuno sapeva più l’uso, ma che «potevano venir buoni, non si sa mai», come sentenziava la signora Marietta, grande produttrice di purè squisiti; e poi spaghi di tutte le lunghezze e il mitico coltellaccio di nonno Carlo, con cui affettava con maestria sopraffina il prosciutto tenuto fermo da un cassetto aperto. I due lati corti erano lisci al tatto, accarezzati in cent’anni da mille irrequiete mani infantili, mille operose mani di anziani.E così partimmo, caricando fino all’inverosimile la Gelsomina, la vecchia Fiat Millecento della mamma, che aveva scelto di rimanere al calduccio a casa. Da Padova a Sospirolo c’erano allora sette passaggi a livello, inevitabilmente tutti chiusi. C’era sempre da aspettare, e intanto si gelava. Partimmo presto. Era il 23 dicembre, il compleanno di mio fratello Gianni. La giornata era splendida, luminosa, ma venata dall’oscurità sempre incombente nei giorni più corti dell’anno.Sapevamo che, lassù, Marietta ci aspettava con una montagna di purè e una ruota intera di formaggio della latteria di Camolino. In più, c’era una cuccuma grande del suo famoso caffellatte cremoso, che scaldava che era una bellezza: sicché, quando finalmente arrivammo, fummo perfettamente felici.Il giorno successivo, la Vigilia, ci divertimmo come pazzi a cercare legna nel bosco, a provare a sciare sul ripido pendio che dalla casa dei nonni portava alla piazzetta di Susin, e a raccogliere con meticolosa attenzione le pere di dicembre, cadute dall’albero grande a metà discesa e affondate nella neve, che bisognava scavar fuori delicatamente. Frutti immangiabili, se crudi; ma ottimi se cotti con abbondante zucchero: li chiamavano “pettorali” perché riscaldavano il cuore.Pieni di latte, di purè e di pere cotte, ci parve una splendida idea quella di andare alla Messa di mezzanotte nel Duomo di Belluno. Gelsomina si comportò benissimo: ci portò a destinazione ansimando solo un poco, come un buon cavallino. Sbarcammo nella Piazza dei Martiri (allora non c’erano divieti o limitazioni di traffico...), e in pochi passi arrivammo in Piazza del Duomo: Una luna spettrale, fredda, illuminava la notte, ma tanti lumini, dappertutto, la riscaldavano un poco. Dall’interno della chiesa proveniva un brusio sommesso e un calore di persone raccolte, e ogni tanto si alzavano un canto, una preghiera.Ma dietro la massiccia struttura, la luce della luna bagnava in modo particolare lo snello, strano campanile, lo rivestiva dall’alto in basso. Separata dalla massa della chiesa, del tutto diversa da essa, l’elegante costruzione settecentesca si slanciava altissima verso il cielo col suo Angelo in cima, opera del visionario architetto siciliano Filippo Juvarra, creatore di tanti palazzi per i re di Piemonte, come la meravigliosa Stupinigi. Niente di più lontano dall’austera cattedrale di Belluno: ma proprio quello che ci voleva per noi in quella notte speciale.Qualcuno lanciò la proposta: «Andiamo ad aspettare la nascita del Bambino dalla loggia del campanile! A Messa possiamo andare domani, nella chiesona di Sospirolo». Aderimmo tutti entusiasti. Il cancello del cortile era aperto. Quatti quatti ci entrammo, e là il campanile si ergeva, solitario e orgoglioso nella sua diversità. La porticina alla base era solo accostata, e ci infilammo dentro.Il cugino Carlo per fortuna si era ricordato di prendere una pila, e si mise a salire per primo. Dietro, uno scalpiccìo silenzioso e qualche imprevisto rumore, subito soffocato. Eravamo eccitatissimi, non sentivamo né freddo né stanchezza, finché arrivammo in cima, all’aerea loggetta, sotto la cuspide e l’Angelo grande: e di là l’occhio correva su tutta la vallata del Piave, che luccicava sul fondo. Ci stringemmo, incantati, scaldandoci l’uno con l’altro: e ci parve che in quel momento anche per noi, mentre le campane si rispondevano da un paese all’altro, arrivassero da ogni parte gli Angeli per salutarci insieme al Bambino.