sabato 12 ottobre 2024
L’ex portiere della Juve e della Nazionale racconta in un libro la sfida per la vita. «Gli ultimi sei mesi di ospedale li ho passati a San Giovanni Rotondo, forse padre Pio mi ha tirato per i capelli»
L'ex portiere della Juventus e della Nazionale Stefano Tacconi con la moglie Laura e i loro figli Alberto, Andrea, Virginia e Vitoria

L'ex portiere della Juventus e della Nazionale Stefano Tacconi con la moglie Laura e i loro figli Alberto, Andrea, Virginia e Vitoria

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«Cadere per poi rialzarsi, cadere per poi rialzarsi ancora. La strada sarà ancora lunga ma noi continuiamo con una grande consapevolezza. L’unione fa la forza, la famiglia fa la forza e alla fine non c’è verso: i campioni vincono sempre». Questo è il messaggio di Andrea, il figlio maggiore del “campione” Stefano Tacconi nei giorni in cui suo padre da ex portiere parava il peggiore dei tiri mancini, quello che gli voleva calciare la morte. Il 23 aprile 2022 Tacconi viene colpito da aneurisma cerebrale. Una data indelebile nella sua memoria scampata a venti giorni di coma, quattro interventi chirurgici e 14 mesi di ospedale per completare la riabilitazione.

«Il 23 aprile è il giorno del compleanno di mia moglie Laura, che di cognome non a caso fa Speranza. Senza di lei, senza il suo amore e quello di Andrea e degli altri tre nostri figli, Alberto, Vittoria e Virginia, questa volta non ce l’avrei fatta. Invece sono morto e rinato due volte! Adesso però mi stanno rompendo le scatole… sempre attenti a quello che faccio, mi marcano a uomo, è un pressing asfissiante», dice ridendo e sbuffando il solito guascone della porta accanto. Il Tacconi nazionale.

Per la generazione dei tifosi della Juventus anni ’80, dopo Dino Zoff, lui è stato “Il Portiere”. Il figlio della classe operaia perugina, nato a Ponte Felcino nel 1957, «quando ancora il paese era tagliato a metà dal Tevere», ricorda nostalgico nella sua toccante autobiografia, L’arte di parare (Rizzoli). Alla corte della Vecchia Signora era arrivato dopo lunga gavetta, nel 1983, acquistato dall’Avellino del vulcanico presidente Antonio Sibilia per prendere il posto del “Dino Mundial” e in un decennio vincere praticamente tutto: 2 scudetti, Coppa Uefa, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni e un Mondiale per club.

Protagonista assoluto, finito quasi in cima al ranking mondiale dei migliori n.1, «quando quello soltanto era il numero di maglia del portiere», ma in Nazionale era costretto a fare il secondo di Walter Zenga, e a stare in panchina a Tacconi veniva il «torcibudella». «Grande Walter, un amico . Però - sorride - ai tempi io stavo alla Juve e lui all’Inter, io vincevo e lui no. E poi a me quando entravo nello studio di Domenica In le ragazze di Boncompagni mi cantavano “sei bellissimo”, a Walter no». Piccola rivincita estetica di “Stefano il bello”, allora, con Antonio Cabrini, il più amato dalle italane.

Le figurine Panini degli anni ’80 sono la testimonianza di quelle sue stagioni di grande bellezza ripercorse nelle pagine de L’arte di parare pensate nei giorni in cui ricordando scriveva: «Sono diventato un anziano da manuale, notte e giorno concentrato sul passato...».

«Ho dovuto ricominciare tutto daccapo. Esercizi fisici e movimenti lenti, come fa un bambino di tre anni. Ripensando a tutto lo spavento che ho avuto e che ho dato alla mia famiglia, e alla fatica fatta per essere ancora qui, come scrivo nel libro, piuttosto avrei preferito trovarmi in porta, con davanti Maradona e 80mila napoletani che mi urlavano “cornuto”».

Ma il “vecchio” Tacconi quando scendeva in campo era abituato a “calci, pugni e colpi di testa”, come recita il titolo del libro dell’ex calciatore Paolo Sollier.

«Mi sarò fratturato le mani quaranta volte. Ho giocato nel Livorno e quella volta che ero alla Sambenedettese e ho battuto il Pisa urlai: dedico la vittoria ai livornesi. Il presidente del Pisa Romeo Anconetani mi venne incontro abbracciandomi e così mi ha salvato dal linciaggio. Confesso – ride di gusto - , quella volta me la sono fatta addosso».

Turbolenze a parte, i tifosi, a cominciare da quelli della Juve, l’hanno sempre amata.

«Vero e l’ho capito in questi due anni. Non pensavo di essere così tanto amato. Quando sei in difficoltà e stai male di solito le persone scappano, invece ho avvertito un calore incredibile. L’amore della gente è stata una grande medicina. Devo ringraziare tutti i tifosi, ma anche i tanti amici calciatori che mi sono stati vicino. Ho un video di Gianluca Vialli che custodisco come una delle cose più preziose che ho. Quando Gianluca è morto ero in ospedale, a lottare anch’io…».

Nei giorni scorsi se ne è andato per sempre anche Totò Schillaci...

«Totò era il mio figlioccio. Quando arrivò alla Juve era spaesato, faceva tenerezza, io ero il capitano e così lo presi sotto la mia ala protettiva. Schillaci era la bontà fatta persona. E lo stesso posso dire di quel gran signore di Gaetano Scirea con cui andavo a cena tutti i venerdì. Se perdevamo alla domenica, Gaetano quella settimana saltava la cena perché diceva: “Non è rispettoso verso i tifosi della Juve”. Io invece me ne fregavo, mai pianto per una partita persa, ho sempre pensato che solo da una sconfitta può arrivare una grande vittoria».

Possiamo dire che la sua vittoria più grande è stata quella ottenuta alla Casa Sollievo Ospedale di San Pio a San Giovanni Rotondo ?

«Quello è stato il fischio finale di una partita durissima, durata sei mesi, tanto sono stato lì. Ha fatto tutto mia moglie Laura, lei è devota di san Pio. Io credo? Sì credo che Qualcuno mi abbia tirato per i capelli e portato fuori da una situazione drammatica. Nelle mie stesse condizioni tanti non ce l’hanno fatta... Appena ho potuto sono andato a ringraziare san Pio giù alla sua tomba nella cripta della chiesa vecchia. Quella nuova non mi piace e credo che anche a Padre Pio non sarebbe piaciuta, tutti quei milioni di euro che ci sono voluti per costruirla penso che li avrebbe utilizzati in maniera diversa. E qui la smetto, altrimenti il 7 dicembre a San Giovanni Rotondo non mi danno più la cittadinanza onoraria».

Al calcio Tacconi ha dato tanto, ma come mai una volta che ha smesso di giocare non è rimasto nell’ambiente?

«È stata una mia scelta, ero esausto. Di allenare non mi andava e poi non avrei fatto bene, non ho pazienza. Non mi è mai piaciuto fare sempre le stesse cose e il pallone ti porta alla ripetitività. Oggi poi dico la verità, questo calcio un po’ mi annoia anche a guardarlo. I padroni dei club sono tutti cinesi, arabi, americani, tutta gente che di calcio non capisce niente, e allora uno come me come potrebbe starci?».

Ma se non avesse fatto il calciatore professionista un piano B ce l’aveva?

«Mi ero diplomato all’Istituto alberghiero a Spoleto, lì ho anche capito che il calcio sarebbe stato il mio mestiere, ma se fosse andata male avrei fatto il cameriere. Quando mi prese l’Inter, i soldi a fine mese non bastavano e pur di non chiederli a casa di giorno mi allenavo con la Primavera e alla sera andavo a servire alla Trattoria Toscana con il gestore che mi allungava 10mila lire. Alla Juve nei ritiri all’estero portavo pasta, pomodoro e parmigiano reggiano e cucinavo per tutti. Quindi il piano B è sempre stato aprire un ristorante. E adesso con mio figlio Andrea lo faremo: lo chiameremo Junic. La “J” ovviamente sta per Juventus, la mia squadra del cuore».

La Juve ora è guidata da Thiago Motta che a Bologna ha fatto magie: rossoblù in Champions dopo mezzo secolo. Ma anche Gigi Maifredi, arrivò nella sua Juve dal Bologna come il filosofo del “calcio champagne”.

Quelli che dicono che Thiago Motta potrebbe essere un altro Maifredi si sbagliano di grosso. Motta cura lo spogliatoio, Maifredi da noi lo distrusse. L’ho più risentito? No, meglio di no».

Chi sono gli amici e gli avversari di quella sua amata Juventus che rivedrebbe più volentieri? Michel Platini, uomo di un’intelligenza superiore. Ogni tanto allo Stadium a Torino l’ho incontrato ed è sempre bello parlare con lui. Gli altri sono incontri impossibili, non ci sono più. Mi piacerebbe ricevere ancora le telefonate all’alba dell’Avvocato Agnelli. Vorrei parare quella punizione a Maradona, il più grande di tutti, lì nello stadio che ora porta il suo nome. E poi vorrei dire grazie al mio “maestro”, Gino Merlo: un giorno quando giocavo nel suo Livorno mi portò in una balera ad imparare a danzare il valzer. Alla fine capii, l’arte di parare è tutta lì: nel ritmo del valzer».

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