Carristi israeliani al confine con il Libano - Ansa
«Not in their name», «non nel loro nome». Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.
Dan Eliav, all’epoca 63enne e, dunque, esentato, anzi ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. “All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo e evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano. Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».
«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».
Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.
Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e 130, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».