Pier Paolo Pasolini durante le riprese del film “Accattone” - Ansa
Pasolini si conferma lo scrittore italiano del Novecento attualmente più studiato. È un primato che l’autore friulano si è guadagnato negli ultimi anni, nei quali è cresciuta in maniera esponenziale la quantità (non sempre la qualità) dei contributi critici a lui dedicati. Nel 2022, nella ricorrenza del centenario della nascita, sono usciti oltre 60 libri su di lui. Ora Interlinea anticipa l’anniversario del prossimo anno, quello del cinquantenario della morte, pubblicando una monografia di Roberto Carnero, Pasolini e i giovani (in libreria da oggi, pagine 136, euro 20,00), di cui presentiamo qui sotto un brano. L’autore, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna e firma di “Agorà”, indaga la tematica nell’opera dell’ultimo Pasolini, di cui evidenzia tutta l’attualità e la capacità di parlare, oggi, alle nuove generazioni, senza evitare di interrogarsi sullo “scandalo” provocato dalla sua vita e dalla sua morte.
I giovani sono una presenza centrale nell’opera di Pier Paolo Pasolini – come personaggi, come oggetto di analisi sociale, come interlocutori – e la tensione pedagogica, tipica del lavoro pasoliniano, si indirizza molto spesso verso di loro. Del resto ai suoi occhi i giovani incarnavano in maniera emblematica le trasformazioni in atto nella società italiana e ne offrivano un’immagine per così dire tridimensionale: con i loro gesti, i loro comportamenti, i loro corpi, prima ancora che con le parole.
Superati pregiudizi e fraintendimenti, sarebbe importante che il dialogo tra Pasolini e i giovani continuasse ancora oggi. Non può rimanere sconosciuto (o, peggio, misconosciuto). Perché quello che dice lui (“dice”: uso di proposito il presente) non lo ha detto nessun altro. Quando qualcuno muore, si dice che lascia un vuoto incolmabile. Spesso si tratta di una formula retorica. Nel caso di Pasolini invece la frase è letterale, perché nessuno l’ha sostituito. E oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, la cosa è ancora più vera di quanto lo fosse nell’immediatezza della sua tragica scomparsa.
D’altra parte, i giovani hanno da sempre apprezzato la franchezza di Pasolini, anche quando non li blandiva o magari, al contrario, polemizza con loro. L’opera di Pasolini è uno straordinario “reagente intellettuale” per riflettere su tanti problemi e questioni che ai suoi tempi si affacciavano sul dibattito pubblico e che nel frattempo sono diventati cruciali.
Prendiamo il tema delle dipendenze, a cui Pasolini si interessa negli anni in cui la droga comincia a diventare fenomeno di massa. Un capitolo delle Lettere luterane, uscito originariamente sul “Corriere della Sera” del 24 luglio 1975, si intitola La droga: una vera tragedia italiana. Vera “tragedia”, o emergenza sociale, la droga sarebbe assurta di lì a pochissimi anni, determinando tante morti di giovani soprattutto per eroina. Ma l’uso delle droghe - pesanti e leggere (distinzione che peraltro non ha alcun fondamento scientifico): dalla cocaina alla cannabis, fino alle pericolosissime droghe sintetiche - era destinato a crescere ulteriormente presso giovani e giovanissimi, fino a raggiungere oggi livelli davvero preoccupanti. Di recente, il pedagogista ed esperto di intelligenceMario Caligiuri ha lanciato un allarme: è facile purtroppo prevedere che il fenomeno della droga sia destinato ad aumentare e che presto costituirà un tema di “preoccupazione universale”, al pari dell’ambiente e delle pandemie, essendo un fenomeno che incide pesantemente sulla sicurezza di un Paese, sia per il disagio sociale che provoca che per i proventi criminali che genera.
Pasolini si interrogava, al di là delle motivazioni personali (sempre diverse e spesso insondabili) che possono spingere un giovane a drogarsi, sulle più profonde ragioni del fenomeno in termini sociali. Ed esprimeva una precisa convinzione: «La droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. (...) La droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura». Perché, spiega subito dopo Pasolini, «la cultura (...) è un possesso: e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso».
Ma il suo centro d’interesse è la realtà giovanile contemporanea nel suo insieme: per lui il vuoto che i giovani tentano di colmare con la droga è innanzitutto un vuoto di valori, quelli della civiltà contadina (...), ora spazzati via dalla moderna società industriale. Talché, come per molti altri fenomeni che sono sostanzialmente interclassisti (la moda dei capelli lunghi dei ragazzi è uno degli emblemi di questo interclassismo degli stili di vita e dei comportamenti imposti dalla “tolleranza repressiva” della società dei consumi), anche quello della droga «riguarda la massa e comprende dunque tutte le classi sociali (anche se il suo “modello” resta piccolo-borghese, ed è magari quello fornito dalla contestazione)».
La droga è dunque per Pasolini un atto anticulturale o quanto meno sottoculturale: «Se vado a Piazza Navona e incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra, sento in lui i caratteri dell’infelicità e del rifiuto piccolo-borghese: e maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare dell’hascisc invece di leggere un libro».
Ma lo scrittore non è affatto tenero con chi sceglie il rifugio della droga, non c’è da parte sua alcun atteggiamento giustificazionistico: «Anzi tendo ad avere per essi una aprioristica e forte antipatia. Da una parte c’è la loro ricattatoria presunzione nel compiere un atto sotto-culturale che essi mitizzano; dall’altra c’è la mia insofferenza personale ad accettare la fuga, la rinuncia, l’indisponibilità». Forse perché per Pasolini quelle della fuga e della rinuncia non sono mai state possibilità da prendere in considerazione. La sua lotta per ciò in cui credeva è stata strenua ed totale. La sua «disperata vitalità» non è mai stata una vitale disperazione: c’è sempre stata in lui un’apertura al futuro.