giovedì 30 gennaio 2020
Sessant'anni fa architetti, urbanisti e studiosi definirono i principi della conservazione che ha salvato molti centri storici. Anche se spesso quelle logiche si sono trasformate in miope ideologia
Una veduta del centro medievale di Gubbio

Una veduta del centro medievale di Gubbio

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Sono lontani i tempi in cui si potevano abbattere interi isolati o quartieri storici per sostituirli con una nuova organizzazione urbanistica e architettonica senza che quasi nessuno potesse opporsi. In Europa si ricorda il piano Haussmann che demolendo alcune zone più antiche di Parigi, considerate fatiscenti e poco funzionali, le sostituì con la grande ruota i cui raggi sono i boulevard con le strade larghe trenta metri, lunghe e diritte per centinaia. È la Parigi che oggi molti adorano, ma dovrebbero sapere che quella nuova conformazione oltre a cancellare larghe zone antiche, fu pensata perché più adatta ai mezzi militari della polizia e poco efficace per erigere barricate, che erano una delle “armi” in mano al popolo in caso di rivolta (l’intervento, infatti, fu voluto da Napoleone III). Uno studioso, Eric Fournier, ha descritto bene nel suo Paris en ruines, l’analogia fra il piccone demolitore e le rovine create dalla guerra: in entrambi i casi, al culmine della distruzione, Parigi assomigliava a un “campo di battaglia”.

In Italia, possiamo ricordare l’intervento mussoliniano a Roma e la creazione di via della Conciliazione, che snaturava le stesse visioni prospettiche ideate secoli prima da Bernini, ma anche in altre città il piccone del Duce creò vulnus importanti. Si demoliva sia per esaltare monumenti antichi romani cari all’estetica fascista sia per sostituirli con le prospettive monumentali affidate ad architetti capaci nel declinare il vocabolario retorico del Duce. Ma anche dopo il fascismo e la guerra – forse anche in continuità con quella visione urbanistica – si continuò, mentre si parlava di ricostruzione, a distruggere fette di tessuto nei centri storici e prevalse il coro di chi chiedeva: “piazza, piazza”. E oggi i tanti vuoti creati negli anni Cinquanta demolendo parti di tessuto storico e mutando l’immagine delle città trasmessa nei secoli, sono ferite che dove possibile andrebbero rimarginate ricreando con buon senso il tessuto che venne demolito. La sensibilità verso la tutela dei Centri storici ebbe però una svolta quando dal 17 al 19 settembre 1960 alcuni architetti, urbanisti, storici e politici si ritrovarono a Gubbio in un Congresso Nazionale che aveva per tema la conservazione e il risanamento delle città antiche.

Fu l’inizio della svolta. Se ne parla oggi a Bologna, all’Accademia delle Scienze in via Zamboni 36, a partire dalle ore 10,30, nel primo dei seminari propedeutici al Convegno Nazionale che si terrà a Gubbio in settembre per celebrare la Carta che venne redatta sessant’anni fa; l’incontro vede coinvolti Italia Nostra, l’università Lumsa e l’università “Giustino Fortunato” di Benevento. Parleranno, tra gli altri, il padre dell’ideologia della conservazione, che ha avuto larga influenza in Emilia- Romagna e sulle riviste d’architettura negli anni Ottanta e Novanta, Pier Luigi Cervellati, il cui intervento ha un titolo che suona come monito: “I principi della Carta di Gubbio non si toccano”. E quali sono questi principi? Bisogna intanto ricordare che furono otto i Comuni italiani che promossero il Congresso Nazionale: Ascoli Piceno, Bergamo, Erice, Ferrara, Genova, Gubbio, Perugia e Venezia. Quest’ultima, quattro anni dopo, sarà il luogo di una “Conferenza sulla conservazione dei monumenti e dei luoghi di Venezia” da cui uscirà una Carta internazionale che, viste le polemiche di questi anni sui transatlantici che entrano indisturbati nellla Laguna e i ritardi (e forse anche la non del tutto convincente soluzione) del Mose, fa pensare che molto sia stato disatteso.

Tornando a Gubbio, tennero relazioni urbanisti come Giuseppe Samonà, intellettuali come Antonio Cederna, architetti come Mario Manieri Elia, Giovanni Romano, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Piero Bottoni, Edoardo Caracciolo, Giovanni Astengo e altri. Un confronto produttivo che, oltre alla Carta, portò, l’anno dopo, alla nascita dell’Associazione Nazionale Centri storico- artistici. Tra gli obiettivi che vennero individuati nella dichiarazione finale, nota appunto come Carta di Gubbio, si sosteneva l’«urgente ricognizione e classificazione preliminare dei Centri storici con la individuazione delle zone da salvaguardare e risanare» e si sottolineava «la fondamentale e imprescindibile necessità di considerare tali operazioni come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi anche la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali».

Questo invito a unire la tutela dei Centri storici e lo sviluppo della città moderna è importante: prima – basta ricordare per esempio il Plan Voisin di Le Corbusier che nel 1925 proponeva di radere al suolo una fetta consistente del centro di Parigi e sostituire quel tessuto con una disposizione ortogonale di edifici alti di forma cruciforme – il principio era appunto “sostitutivo” del vecchio col nuovo, poi ci si proponeva invece di salvare il vecchio e di integrarlo col nuovo. Le città storiche non si sono forse rigenerate nei secoli integrando vecchio e nuovo dentro il continuum edilizio? A Gubbio si riconobbe «la necessità di fissare per legge i caratteri e la procedura di formazione dei piani di risanamento conservativo, come speciali piani particolareggiati di iniziativa comunale, soggetti ad efficace controllo a scala regionale e nazionale». Si dichiarò anche che venivano «rifiutati i criteri del ripristino e delle aggiunte stilistiche, del rifacimento mimetico, della demolizione di edifici a carattere ambientale anche modesto, di ogni “diradamento” e “isolamento” di edifici monumentali attuati con demolizioni del tessuto edilizio... ».

I promotori della svolta invitavano a consolidare le strutture degli edifici, a eliminare le sovrastrutture moderne, a ricomporre le unità immobiliari per ottenere abitazioni funzionali e i- gieniche, istituendo infine vincoli di intangibilità e non edificazione. Si raccomandava il coinvolgimento di enti che offrissero risorse finanziarie per il recupero, si insisteva sulla perequazione dei valori economici e sulla disponibilità di mutui a basso costo... per non costringere molti abitanti a lasciare le loro case a causa dei costi di recupero (cosa che è invece avvenuta, proprio nell’Emilia-Romagna rossa). Ma nella sostanza molte cose che avevano a che fare col buon senso e il rispetto della realtà ricaddero nelle maglie di una cultura della conservazione che divenne ideologia politica, massimalismo, imposizione di vincoli antistorici proprio rispetto alle nuove esigenze abitative. Quel che è peggio, i vincoli per il comune cittadino vennero trasgredite dagli uffici di edilizia pubblica che concepirono la conservazione solo come problema di immagine: intere parti fatiscenti vennero demolite e ricostruite identiche in cemento armato in ossequio all’idea di Cervellati che «Il vero museo è la città». Cervellati si riferiva infatti alle teorie di Quatremère de Quincy che, nelle Lettres à Miranda, parla del “museo di Roma”: il museo, scrive, pur fatto di opere d’arte, è altresì quello «composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni delle città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel Paese stesso».

Questa musealità totale, specifica di ogni città, ha imposto sui centri per decenni una “campana di vetro” impedendo, anche là dove non si poteva conservare, di ricostruire con criteri attuali. Ma l’uomo ha segnato ogni tempo costruendo coi propri mezzi parti di città che hanno sostituito quelle vecchie: l’effetto del continuum edilizio si rispecchia nelle proprie diversità interne che rimandano a epoche storiche precise. Forse oggi non si ripone molta fiducia sulla cultura degli architetti, e non sempre a torto. Gli esempi criticati della demolizione però hanno irretito ogni fiducia nella capacità umana di far fronte alla riprogettazione giusta e rispettosa delle città storiche, e l’avido sfruttamento speculativo del suolo ha fatto il resto. E intanto nelle periferie o ai margini della città storica sono caduti, come meteoriti, oggetti architettonici che sembrano carri da lunapark. Da una parte la musealizzazione della vita (il cui spettro negativo sono le automobili), dall’altra la spettacolarizzazione delle archistar. Ma questo, in fondo, non tradisce comunque le volontà della Carta di Gubbio?

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