«Ormai l’unica strada per entrare in Europa è la Turchia», sostiene Bawa Hissen Folase, giovane sudanese. «Dal Marocco non si passa più perché ci sono i militari che sparano. Dalla Libia nemmeno. Io ci sono stato: ho lavorato tre anni a Tripoli per pagarmi il passaggio verso Lampedusa. Poi la polizia italiana ci ha fatto tornare indietro. Eravamo in diciotto, e nel corso della traversata alcune delle persone più deboli sono morte». Siamo a Patrasso, dove afgani, sudanesi, somali, eritrei, curdi, iracheni e palestinesi vivono accampati nei pressi del porto d’imbarco per l’Italia. Sono stimati complessivamente intorno al migliaio, organizzati in campi abusivi, chi all’aperto, chi sotto vagoni dei treni, chi in case occupate, divisi per Paesi o area geografica di provenienza. Senza assistenza, né acqua né luce, con servizi igienici di fortuna. In città solo l’associazione umanitaria Kinisi si prende cura di loro, ma la situazione è totalmente fuori controllo. E Patrasso non è nient’altro che la punta dell’iceberg di un sistema di immigrazione clandestina che parte da Kabul, come da Khartum o dalla Cisgiordania, per entrare in Europa attraverso il confine tra Turchia e Grecia. Una storia di fatiche, ingiustizie, soprusi, violazioni, a volte morte. Tutto per riuscire ad arrivare nell’avamposto europeo del mar Egeo, nell’enclave ellenica, dove tutti i migranti, clandestini, in attesa di permesso di soggiorno o richiedenti asilo, tentano poi di entrare illegalmente in Italia, nascosti nei container o attaccati sotto i rimorchi dei Tir in attesa di imbarcarsi sui traghetti per Bari, Ancona o Venezia. Per rimanerci o per potersi spostare "liberamente" in altri Paesi d’Europa confinanti. «In Grecia è molto facile entrare. Il difficile è uscire», spiega Hamid, afgano di quattordici anni, accampato con altri cinquecento connazionali nella "
forest", come la chiamano loro, un grosso uliveto alla periferia est della città di Patrasso. Braccato dalle forze dell’ordine attende il momento di imbarcarsi verso l’Italia. Ogni due o tre giorni la polizia si presenta all’alba, distrugge le baracche di teli e cartoni improvvisate, arresta quattro o cinque ragazzi e se ne va. «Non si tratta solo dell’esecuzione degli ordini – denuncia Johannis Lamprous, di Kinisi –, ma di veri e propri atti di brutalità». Le strade per raggiungere la frontiera tra Turchia e Grecia, nuovo eldorado per persone in fuga da guerre, carestie e povertà, in cerca d’Europa, sono le più disparate.Il giovane Abdullah, diciottenne leader di un gruppetto di otto ragazzi provenienti dallo stesso villaggio, racconta la sua epopea: «Ho impiegato più di due mesi ad arrivare qui. Sono partito dal mio villaggio, a nord di Kabul, per Kandahar. Da li sono passato in Pakistan, nella città di Quetta per proseguire verso l’Iran. Sono arrivato a Khoy, vicino al confine tra Iran e Turchia, con passaggi in automobile e accompagnato da guide locali lungo le montagne, sono entrato in Turchia nella città di Van. Da qui ad Ankara, poi Istanbul, Smirne ed infine il centro di Pagani, sull’isola di Lesbo. Ora sono a Patrasso da sei mesi, in attesa di andare in Italia, perché finalmente voglio entrare davvero in Europa…». Mohammud invece, ingegnere minerario sudanese sulla cinquantina, racconta: «Sono arrivato ad Ankara in aereo dal Cairo. Sono scappato da Khartum lasciando moglie e quattro figli perché ero finito sulla lista nera del governo». Una volta arrivato ad Ankara, l’ingegner Mohammud ha contattato un "
passeur", un trafficante di uomini, per entrare in Europa. Come? «Col telefono cellulare naturalmente – spiega –, chiamando un numero avuto da un connazionale incontrato al Cairo». Detto fatto, per la modica cifra di quattrocento euro, molto meno del passaggio dalla Libia all’Italia, o dal Marocco alla Spagna, Mohammud è stato imbarcato su un gommone che dal porto di Smirne, sulla costa turca, lo ha portato sull’isola greca di Samo. Dopo due mesi di fermo viene rilasciato con un permesso bimestrale in attesa di risposta per la domanda di asilo. «In realtà è dai sei mesi che sono in Grecia e ancora non mi hanno comunicato niente», spiega l’ingegnere. Che è costretto a dormire da clandestino insieme a duecento tra connazionali, somali, eritrei e subsahariani, sotto alcuni vagoni dismessi presso la stazione nella periferia ovest di Patrasso. Amir, ragazzo iracheno intorno alla ventina, è arrivato a Patrasso con un colpo di arma da fuoco in corpo. Cosa che, conferma Lamprous, accade di frequente. Ora è guarito, e insieme ad una decina di ragazzi, in maggioranza afgani, attende che un Tir si fermi al semaforo per balzare sotto il rimorchio e nascondersi tra i cassoni della parte centrale. Con il rischio di essere arrestato dalla polizia portuale. «Per andare in Italia il modo ci sarebbe – spiega Magal, giovane afgano –. Basta avere i soldi e un passaggio si trova».Lo prova il recente ritrovamento da parte della polizia portuale di Patrasso di un camion con venticinque immigrati clandestini nascosto in un doppiofondo. «Questi traffici sono organizzati direttamente da Atene – spiega Mihalis Sidiropoulos, giovane studente di legge attivista di Kinisi a Patrasso – da dove arrivano i camion carichi di clandestini nascosti diretti nei porti di Venezia, Ancona o Bari». Il costo del "passaggio" è variabile, e può arrivare fino a duemila euro. La Grecia, che con il tasso del due per cento di riconoscimento dello status di rifugiato contro la media Ue del venti, è il Paese meno "accogliente" dell’intera Unione, ha recentemente cambiato governo. E in molti si attendono – in mezzo alla spaventosa crisi economica che lo sta attraversando – forti segnali di cambiamento. «Il nuovo governo Papandreou eredita una situazione di gestione dell’immigrazione non facile – spiega Mihalis Sidiropoulos –, ma qualche segnale positivo si intravede». Come il nuovo ministro della Giustizia, oggi denominato Giustizia, corruzione e diritti umani, Apostolos Katsifaras, originario di Patrasso, che conosce molto bene i problemi legati all’immigrazione clandestina. Nel frattempo la strada dell’imbarco clandestino dal porto di Patrasso si sta chiudendo. Negli ultimi tre mesi solo poche decine di ragazzi sono riusciti a partire. E meno di una ventina ha superato i controlli italiani nel porto di destinazione. «Ieri mi ha chiamato un amico che dormiva con noi, qui nella "
forest". Era appena arrivato a Calais, in Francia – racconta Hassan, giovane afgano –. Ha tentato una nuova strada via terra: Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria. Mi ha detto che il passaggio più difficile è quello tra Serbia e Ungheria, perché la polizia è molto severa. Ma una volta giunti in Austria non ci sono più problemi. Appena riesco a raccogliere qualche soldo parto anche io. Perché penso che quella sia la nuova strada per tutti noi».