Ha avuto bisogno di più di sessant’anni per riuscire a raccontare la sua guerra: quella del 1948, il punto di svolta della storia recente del Medio Oriente. Lo scrittore israeliano Yoram Kaniuk ha combattuto tra le fila del Palmach: le brigate clandestine nate prima ancora dello Stato di Israele per difendere il "focolare ebraico" nella Palestina del mandato britannico. E proprio
1948 è il titolo del suo libro autobiografico, diventato in fretta un best seller in Israele e ora tradotto anche in italiano dall’editrice Giuntina. Un volume in cui emerge soprattutto il disincanto di un diciassettenne nato nel fervore culturale della Tel Aviv degli anni Trenta e Quaranta, finito per arruolarsi in quella che definisce una moderna «crociata dei bambini» che fu però insieme anche lotta per la sopravvivenza.
Ma chi erano gli ebrei che combattevano nel Palmach?«La verità è che ci siamo ritrovati catturati in quella guerra. Quando gli arabi nel 1947 non hanno accettato il piano di partizione dell’Onu, hanno iniziato ad attaccare i nostri autobus, i nostri villaggi. Io mi ero arruolato per aiutare l’immigrazione clandestina, i sopravvissuti della Shoah che cercavano di arrivare dal mare nonostante il blocco imposto dagli inglesi. Facevamo le esercitazioni sulle barche. Poi, però, mi sono ritrovato a combattere sulle colline intorno a Gerusalemme. In una guerra che è stata crudele: ho visto quasi tutti i miei compagni morire. E tanti episodi atroci, da entrambe le parti».
Lei racconta la guerra del 1948 in un modo molto diverso rispetto all’epica ufficiale: ce la restituisce in tutta la sua crudezza.«Volevo che venisse fuori questa guerra. Abbiamo tanti libri sul conflitto del 1948, ma sono tutti scritti con lo sguardo dello storico. A me, invece, interessava la memoria, il nostro vissuto interiore, quello che provavamo davvero. Io allora ero molto giovane, venivo dal liceo. Ecco, ho scritto questo libro lasciando venir fuori ciò che osservava quel diciassettenne di allora, compreso il conflitto tra i miei ideali e quanto vedevo. La memoria, appunto. Però vuole anche dire che di quei mesi così intensi, scanditi da tante morti, c’è chi ricorda una cosa, chi un’altra...».
Scrive che non combattevate per uno Stato.«Non avevamo mai avuto uno Stato e non ci pensavamo proprio. Combattevamo per difendere la sopravvivenza di noi stessi, della nostra famiglia, del nostro villaggio. Del resto non avevamo nulla e men che meno eravamo informati su quanto accadeva a livello diplomatico. Eravamo come bande di partigiani».
Eppure voi del Palmach siete sempre stati presentati come gli eroi del sionismo, i "nuovi ebrei". Chi è per lei un eroe?«Credo che i veri eroi siano i sopravvissuti all’Olocausto: ne ho incontrati molti. Ci deve essere voluta una forza enorme per restare vivi in un posto come Auschwitz. E loro ci sono riusciti, sono venuti in Terra di Israele, hanno mandato i loro figli a scuola. Non erano come me, che mentre loro stavano vivendo quella tragedia crescevo con la possibilità di ascoltare Bach e Beethoven. Loro arrivavano sulle navi sbucando fuori dal nulla. In fondo è soprattutto per loro che abbiamo costruito lo Stato di Israele».
Chi erano gli arabi che combatteva?«Ci sono due narrative della guerra del 1948: la nostra e la loro. Per gli arabi noi eravamo stranieri e in un certo senso questo lo capisco. Li ho visti anche combattere in maniera valorosa. Ma noi non avevamo scelta: dovevamo vincere quella guerra. Nel mio racconto non ho voluto edulcorare nulla; si deve capire che noi combattevamo per sopravvivere. E comunque la loro era la guerra dei leader, dei governanti dell’Egitto, del Libano o dell’Iraq che non avevano accettato la partizione. Non era certo la guerra dell’arabo di Jaffa o della donna del villaggio».
Sessant’anni dopo come vede il futuro di Israele?«Non sono per niente ottimista. Non credo che quello che abbiamo sia un buon governo. Ma è stato eletto democraticamente e allora che cosa posso dire? In tanti mi chiedono: sopravviveremo? Sinceramente non lo so. Vedo tanti scontri anche dentro la società israeliana: la spaccatura tra laici e religiosi. Ma anche il conflitto generazionale è molto forte: non siamo più una nazione sola».
Ha fatto scalpore la sua richiesta di ottenere la cancellazione dello status di ebreo dalla carta di identità. Perché questa scelta?«Amo molto l’ebraismo e la sua cultura. Ma a partire dagli anni Settanta e Ottanta qui da noi è diventato una religione molto dura, utilizzata anche per raggiungere altri obiettivi. Io ho sposato una donna che non è ebrea e quindi le mie due figlie sono israeliane ma non ebree. Due anni fa una di loro ha avuto una figlia, mia nipote, e non sapeva bene che cosa fare perché senza il riconoscimento ufficiale di una conversione neanche sua figlia viene considerata ebrea. È stato allora che ho chiesto di far togliere dalla mia carta di identità lo status religioso di ebreo: voglio essere un israeliano, parte della nazione ebraica ma non della religione ebraica. E il fatto che questa mia scelta sia diventata un caso è la dimostrazione di come la questione della separazione tra religione e nazionalità in questo Paese non sia stata affatto risolta. Ma non c’è nulla nella religione ebraica che imponga la sovrapposizione dei piani. Questo non è più ebraismo».