La vecchia raccolta fotografica messa insieme da Klaus Wagenbach,
Franz Kafka. Immagini della sua vita è una sorpresa. Di un autore del quale nessun libro può esser letto per la prima volta, per i veli di angoscia ossessioni oscurità che vi si sono depositati in maniera inerte, solo le foto meno note possono essere guardate a mente vergine. Non c’è uno scrittore cui stia meglio il bianco e nero. E nessuno cui abbia nuociuto altrettanto. Lo circondiamo di atmosfere che crediamo kafkiane. Nei ritratti aggiungiamo un po’ di oscurità togliendo qualche chiazza di luce, elemento per niente kafkiano. Tra tutte le immagini scegliamo l’ultima, la più vicina alla morte («E io ero presente – scrive Klaus Wagenbach – quando il reparto pubblicità della casa editrice S. Fischer elaborò per bene l’ultima fototessera di Kafka (…) stampandola in modo che gli occhi ardenti di un profeta fissassero l’osservatore»). E mettiamo sulle sue copertine sempre gli stessi ritratti. Su uno di quei tre che ritornano costantemente, non ci sarebbe niente da dire. È il ritratto seduto in cui indossa la bombetta. Vestito elegantemente, sembra giovanissimo (più di quanto sia in realtà: ha tra 23 e 25 anni). Pallido, lo sguardo distante, fondo, la bocca atteggiata a un sorriso impercettibile. Cosa è kafkiano, in questo ritratto, e cos’è “kafkiano”? Autentica è l’ineffabilità di quel sorriso, la luce e le ombre dello sguardo, la luce del volto. La mano che sembra torcersi in modo innaturale. Ma è parzialmente coperta e questo non si può dire con certezza. Anche il cane uscito male è abbastanza significativo, ma tra l’inquietante e il comico, altro tratto kafkiano. A guardare più attentamente, l’orecchio “mancante” del cane in realtà è tenuto giù dall’altra mano dello scrittore, con un gesto fermo e affettuoso. Scorrendo il volume saltano subito agli occhi i ritratti che lo chiudono: otto foto “formato tessera”, un riassunto della sua vita. La foto dei 40 anni, l’ultima sua immagine, è quella che segnala Wagenbach. È vestito formalmente. La magrezza estrema fa apparire le orecchie ancora più staccate dalla testa, e dallo sguardo sembra rientrata ogni luce. Il ritratto più lontano da questo è invece il più vicino nel tempo, di soli due o tre anni prima. Così diverso da credere che non si tratti di Franz Kafka. Non sorride, ma ride. Il volto è pieno. Sembra un suo fratello minore e felice. Wagenbach voleva allargare e dare aria all’immagine dello scrittore praghese: far conoscere i luoghi, gli amici, le prime copertine dei libri («Non lo si può far vedere neanche da lontano», chiede Kafka per la prima stampa della
Metamorfosi, riferendosi all’insetto). A pagina 53, un altro ritratto sconosciuto. Forse è mattino. Il vestito è chiaro, la posa informale, disinvolta. Il volto franco, chiaro e bello. Appoggiato a una ringhiera fiorita, lo scrittore ha le braccia alzate, che si afferrano alle sbarre. La didascalia dice: «Kafka all’inizio degli studi universitari». Un ritratto luminoso, un giovane bello e sorridente. In questo scrittore sempre in lotta tra ombra e luce, forse non siamo in grado di vedere la luce, e così ci pare di doverla togliere anche dai suoi ritratti. Anzi, di dover togliere i ritratti.
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