mercoledì 23 ottobre 2024
Il politico ucciso dagli squadristi di Mussolini trascorse nel Rodigino, dove era nato, 36 anni di vita e qui guidò le lotte contadine. Come viene ricostruito da uno studio di Gino Bedeschi
Giacomo Matteotti con il figlio

Giacomo Matteotti con il figlio - archivio

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Nell’alluvione di libri su Giacomo Matteotti (1885-1924) pubblicati in occasione del centenario del suo assassinio ne segnaliamo uno che merita attenzione: Gino Bedeschi, Il Polesine nel primo dopoguerra. Le lotte contadine del biennio rosso e l’avvento del fascismo (Apogeo editore, pagine 482, euro 18,00). Perché lo segnaliamo? Perché il deputato socialista è sempre ricordato per la sua strenua lotta al fascismo, per il selvaggio delitto di cui fu vittima, che ne fece un mito e lo proiettò nel pantheon delle glorie nazionali. È molto meno conosciuto invece il lungo e oscuro tirocinio politico come amministratore comunale e organizzatore di leghe contadine che precedette il suo approdo in Parlamento. Tirocinio che svolse interamente nella terra in cui era nato, il Polesine, la provincia di Rovigo, una delle aree più povere, sconosciute e abbandonate della Penisola, alla quale è appunto dedicato lo studio. È da qui che bisogna partire per capire Matteotti, la sua scelta quasi suicida di lasciare la brillante carriera universitaria nel settore penalistico, alla quale era destinato dopo la laurea in giurisprudenza all’Università di Bologna (che a partire dal 7 novembre prossimo gli dedicherà una mostra dal titolo “Matteotti studente dell’Università di Bologna”), per impegnarsi totalmente alla causa della «redenzione delle nostre plebi agricole», come dirà poi in un discorso alla Camera. Egli trascorse nel Polesine, a Fratta, dove era nato e dove viveva – oggi la sua abitazione è stata trasformata in casa-museo e aperta al pubblico –, trentasei dei trentanove anni della sua vita. Matteotti amava profondamente questa provincia, ne parlava il dialetto e conosceva come pochi i problemi, l’ansia di riscatto e di giustizia, le caratteristiche e il temperamento degli abitanti. È nelle campagne polesane e in quelle confinanti del ferrarese che imparò a conoscere il fascismo, quello peggiore, lo squadrismo agrario. I suoi discorsi in Parlamento, nei quali per primo additò nel movimento mussoliniano un mortale pericolo per le istituzioni, partono sempre dal Polesine, dalla violenza che vi dilagava. Il 10 marzo 1921 elencò uno per uno i paesi nei quali erano avvenute le aggressioni e gli omicidi che giustificavano la sua denuncia: Salara, Gavello, Pincara, Pettorazza, Adria, Lendinara. Sono tutte borgate del Polesine, vicine o addirittura confinanti con Fratta. Senza il Polesine, insomma, o fuori dal Polesine, il deputato socialista sarebbe stato un politico di altro tipo, e probabilmente non sarebbe morto come sappiamo. Lo studio di Bedeschi prima merita attenzione perché è una minuziosa radiografia di questo lembo d’Italia, racchiuso dentro il tratto terminale dell’Adige e del Po, incentrata sul periodo in cui Matteotti vi operò e ne divenne il leader. Il Rodigino era provincia bracciantile, con impressionanti percentuali di analfabetismo, nella quale imperversavano la fame e la pellagra, tipica malattia del sottosviluppo, dove la lotta sociale era sempre stata aspra, senza mezze misure, con un piccolo ceto possidente reazionario e misoneista al quale si opposero un combattivo movimento cattolico-sociale e il socialismo, che divenne rapidamente la forza egemone. Con l’aiuto di una vasta documentazione poco o per nulla conosciuta, reperita negli archivi e nella stampa locale, Bedeschi entra in tutte le pieghe di questo sconosciuto mondo di provincia, che stava per diventare, in anticipo sul resto del Paese, un laboratorio sociale dal quale non uscì soltanto la futura vittima di Mussolini ma anche il cattolico Umberto Merlin, che sarà fra i più autorevoli parlamentari nel partito popolare di Sturzo. A forgiare il politico Matteotti fu dunque un ambiente che non aveva mai conosciuto le raffinatezze della politica alta, dove l’ideale socialista non nasceva da riflessioni teoriche ma da bisogni elementari e si esprimeva con uno stile di lotta rozzo, incontrollato, brutale. In siffatto ambiente il raffinato intellettuale Matteotti, guida incontrastata di masse rurali che non sempre riusciva a tenere sotto controllo, divenne il nemico giurato dei possidenti perché, essendo uscito da una famiglia di commercianti e proprietari terrieri molto agiati, apparve alla società locale come un sorta di “traditore di classe”: il ricco passato con i poveri, il latifondista che si atteggiava a rivoluzionario, il pacifista che denigrava la guerra e i combattenti. Nelle rievocazioni della sua figura avvenute in quest’anno centenario quasi mai è stato ricordato che nel Polesine Matteotti fu uno dei politici più odiati e insultati sulla stampa locale, bersaglio di feroci polemiche, spesso ricordate dai suoi avversari anche nei discorsi parlamentari. Forse non a caso i maggiori indiziati del suo assassinio, il dirigente fascista Giovanni Marinelli e il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi, erano due polesani come Matteotti, probabilmente animati da vecchi rancori locali nei suoi confronti. Da questo studio si ricava infatti che i socialisti furono tutt’altro che privi di responsabilità nell’esplosione del clima di violenza che infiammò il biennio rosso in Polesine. Non diedero obiettivi politici chiari alla protesta, ottenendo invece l’effetto di provocare la rabbiosa reazione dell’avversario, l’Agraria, che nel movimento fascista – erettosi a difensore dell’ordine sociale, degli interessi costituiti, delle ragioni dell’interventismo e della guerra, continuamente negate dalla propaganda della sinistra – individuò subito lo strumento per debellare l’inconcludente agitazione socialista. Accadde così che in questa terra in cui gli animi si infiammavano facilmente, il giustizialismo anarcoide e vandalico delle masse contadine e bracciantili provocò la reazione furiosa dello squadrismo fascista, ben altrimenti organizzata, determinata e finanziata, che ebbe rapidamente la meglio. Matteotti operava in tale ambiente, sempre al centro di questa vicenda. Soltanto dopo l’aggressione che subì a Castelguglielmo il 13 marzo del 1921, a pochi chilometri dalla sua casa, dovette abbandonare definitivamente la provincia. Non fu dunque, il Polesine, soltanto la terra della sua formazione socialista, degli studi giuridici, degli affetti familiari. Fu la terra nella quale maturò il suo giudizio sul fascismo, la sua consapevolezza che questo non era un fatto storico temporaneo, addomesticabile, ma una rivoluzione che mirava al sovvertimento dell’ordine costituito e all’instaurazione di una dittatura. Non a caso la moglie, che lo conosceva meglio di tutti, volle che dopo l’assassinio la sua salma venisse riportata a Fratta e non tumulata a Roma, come desideravano i dirigenti socia-listi, perché questa, disse, era la volontà sempre manifestata in vita dal marito: essere sepolto nella sua terra, fra la sua gente, accanto al padre e ai sei fratelli. Avere focalizzato l’attenzione su questo territorio allora quasi ignoto e anche oggi ben poco conosciuto, sulle responsabilità del clima infuocato che dopo la guerra lo inondò di sangue e sofferenze, senza fare sconti a nessuno, neppure a Matteotti, è la novità di questo libro.

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