Cinque passi e un minuto di pausa per riprendere fiato. Altri cinque e ancora un minuto. E via così per dieci, cento, mille, un milione di volte. Scalare in montagna alla quota di crociera dei jumbo è un lavoro sfiancante, quasi inumano. L’aria è talmente sottile e l’ossigeno così rarefatto che i polmoni la cercano disperatamente e ti pare di soffocare a ogni passo. Farlo d’inverno, con il termometro che segna trenta gradi sotto zero e il vento che te ne fa percepire cinquanta, richiede una preparazione e una capacità eccezionali. In principio questa faticaccia oltre gli Ottomila metri era appannaggio soprattutto dei polacchi. Jerzy Kukuczka e Krzysztof Wielicki negli anni ’80 ne hanno scalati tre a testa e sempre nella stagione più fredda. Poi è arrivato Simone Moro, bergamasco di 48 anni, che in un decennio ha calato addirittura un poker: Shisha Pangma (8.027 metri) nel gennaio 2005, Makalu (8.485 metri) nel febbraio 2009, Gasherbrum II (8.035 metri) nel febbraio 2011 e Nanga Parbat (8.126 metri) lo scorso 26 febbraio. Con questa spedizione, la sua 54ª, Moro è diventato così il primo e unico uomo al mondo ad aver salito in inverno quattro Ottomila. Nessuno c’era mai riuscito e nessuno lo potrà eguagliare. Insomma, il suo nome resterà scritto per sempre nella storia dell’alpinismo. Come quello del suo modello e maestro, Rehinold Messner, primo alpinista al mondo ad aver scalato tutti i 14 Ottomila della Terra.
Simone, come è nato il sogno degli Ottomila? «In un appartamento di 64 metri quadrati, dove vivevo con la mia famiglia: mio padre Franco, mia madre Teresa e i miei due fratelli. Il mio sogno alpinistico è nato nella mia famiglia ed è poi cresciuto seguendo un modello: Messner. In questi due meccanismi, l’emulazione e la crescita, si è sviluppata la mia personalità».
Come hanno preso in famiglia la decisione di diventare alpinista? «I miei genitori avrebbero potuto anche avere paura, perché l’alpinista è un po’ come il clown: è un lavoro strano. E, invece, loro mi hanno detto: “Questo è il tuo sogno. Preparati. Coltivalo. Impara a perdere e impara anche ad accettare l’eventualità di non farcela”. Questi sono stati gli insegnamenti importanti che ancora mi sostengono nel mio essere, oggi, marito e padre. E anche alpinista».
La famiglia, insomma, come una cordata. Quanto è importante la cordata a Ottomila metri? «Tanto, ma non solo a Ottomila metri. Io non sono mai stato un grande alpinista solitario, anche se nel 2006 ho fatto da solo la traversata dell’Everest. Non ho mai spinto l’alpinismo solitario perché mi piace condividere il successo, o l’insuccesso, un abbraccio, una decisione. Il segreto del Nanga Parbat è stato proprio il gruppo, apparentemente eterogeneo. Con me avevo un pakistano, uno spagnolo e una ragazza italiana, Tamara Lunger».
Che ha rinunciato quando mancavano settanta metri alla vetta... «Tamara ha dimostrato al mondo che anche una ragazza può stare a 8mila metri. Anzi, proprio la decisione di rinunciare a settanta metri dalla cima, vicina a un momento epocale per lei e per l’alpinismo, ha non solo salvato la sua di vita ma non ha messo in difficoltà la nostra, che avremmo dovuto aiutarla. Nella rinuncia e non nella vittoria, Tamara ha lanciato a tutti un grande insegnamento».
C’è spazio per la paura a quota Ottomila? «Deve esserci spazio perché se no non torni a casa. La paura è il contachilometri dell’autoconserva-zione. La paura è necessaria. È come la fame, come il sonno, è qualcosa di umano. Negarla sarebbe già una forzatura. Io ho avuto, ho paura e voglio continuare ad averla. Certo, non la faccio degenerare in panico, la gestisco, la ascolto. In montagna se non sai ascoltare la paura non torni a casa».
Come si torna, invece, con i piedi per terra, dopo essere stato a Ottomila metri? «Cercando di non negarsi, di non diventare schizofrenico. Se hai fatto una cosa che ha affascinato tante persone cerchi di parlare con tutti, come sto facendo in queste settimane. Insomma: basta non perdere il senso della realtà».
Nei libri di montagna, l’alpinista ha sempre la faccia cotta dal sole e lo sguardo truce, quasi non debba mai abbassare la guardia. Lei, invece, sorride sempre: da dove nasce questa predisposizione alla giovialità? «Sono nato in una famiglia che non mi ha fatto mancare nulla in termini di affetto e di amore, di educazione e anche di crescita morale. Però sono anche una persona che sa che la felicità, come diceva madre Teresa di Calcutta, non è una destinazione ma un percorso. E allora bisogna cogliere la gioia nel percorso e non negli epiloghi. Sono sereno e felice perché ho capito che mi devo gustare il percorso».
Le è capitato di pregare in montagna? «L’alpinismo è una forma di preghiera. Non c’è nessuna convenienza materiale a scalare una montagna esattamente come non c’è nel credere, che è anzi un atto di umiltà. E lo è anche scalare. È una grande fatica che ti potresti evitare o potresti scalare una montagna più piccola, molto più conveniente e facile da “vendere” come un risultato. Non vai d’inverno a cercare difficoltà perché vuoi diventare ricco e famoso. Sì, in montagna mi è capitato di pregare nel senso letterale della parola, anche se magari non vado a Messa per mesi. Sono un cristiano un po’ atipico. Però quando sono a ottomila metri mi sento vicino a Dio e alla mia anima. E al campo base scopri che, anche se lo chiamiamo con diversi nomi a seconda delle religioni, Dio è sempre lo stesso. La montagna unisce tutte le religioni».
Eppure nel 2012, proprio il campo base del Nanga Parbat, è stato teatro dell’azione di un gruppo di talebani che hanno ucciso undici persone con un colpo in testa. Anche la montagna non è al riparo dai fondamentalismi? «In quel campo base ho vissuto da dicembre a febbraio. Non ho avuto paura non perché sia un irresponsabile ma perché vado con un approccio diverso. Vado con le finestre aperte, consapevole che sono ospite e aperto a relazionarmi con tutti. E questo mi è successo in Nepal con i buddisti, in Patagonia con i cristiani e adesso in Pakistan con i musulmani. Il mondo e le persone non sono quasi mai ostili. Lo diventano quando o vengono malamente indottrinate o quando chi si relaziona con loro lo fa con le finestre chiuse e in modo ostile e prevenuto. In un mondo globalizzato bisogna cambiare lo stile delle relazioni. La sfida è imparare a relazionarsi e per farlo bisogna conoscersi. È l’Everest di domani».