Dopo quasi settant’anni, la verità sull’evasione di Enrico Mattei dalle carceri fasciste emerge in tutta la sua nitidezza, grazie a notizie di prima mano raccolte tra testimoni e protagonisti superstiti. Erano le 4 del mattino di venerdì 8 dicembre 1944, festa dell’Immacolata, quando il capo storico dei partigiani cattolici, nonché tesoriere del Cvl (Corpo volontari della libertà), riuscì a darsi alla fuga dalla prigione allestita dalla Questura di Como nella palestra Mariani di via Nazario Sauro, nel capoluogo lariano. Si trattava di una improvvisata succursale delle carceri di San Donnino, afflitte da cronico sovraffollamento, e ospitava una trentina di detenuti politici. L’impavido Mattei era stato catturato a Milano, il 26 ottobre 1944, durante un’operazione di polizia condotta da uno dei più implacabili segugi di Salò, il vicecommissario Domenico Saletta. Nella retata cadde gran parte dello stato maggiore clandestino della Democrazia cristiana del Nord. A Como, Mattei ebbe come compagno di prigionia un giovane cattolico, Ferruccio Celotti, futuro sindaco democristiano di Pognana Lario, un paese rivierasco. Proprio Celotti, scomparso nel 2002, ha lasciato un memoriale in cui racconta: «Nei primi giorni del mese di dicembre, Mattei mi confidò che era sua intenzione scappare dal carcere e che stava predisponendo tutte le cose per poter evadere e mi chiese se volevo andare con lui. Indubbiamente la notizia mi fece molto piacere. Tanto è vero che qualche giorno dopo avemmo entrambi un colloquio: lui con sua moglie e io con mia madre, a fine di predisporre quanto possibile per il dopo fuga». L’evasione del futuro presidente dell’Eni è stata alquanto romanzata. Nella fiction televisiva andata in onda su Raiuno nel 2009 (con Mattei interpretato dal bravo Massimo Ghini), si è adombrato che fosse avvenuta a Milano. Ci fu addirittura chi affermò che il leader dei partigiani bianchi avesse tagliato la corda travestito da prete.
Nulla di tutto questo. Approfittando del cambio degli agenti di custodia, una delle guardie del nuovo turno, Giuseppe Spatafora, arrivò in anticipo e fece allontanare i colleghi che smontavano. Poté così aprire la porta del carcere a Mattei, che a quel punto si trovò però spiazzato perché Celotti, temendo che la sua fuga potesse provocare ritorsioni fasciste sulla propria famiglia, all’ultimo momento non se la sentì di partecipare all’evasione. Privo dunque della necessaria guida, che lo potesse scortare ai recapiti degli antifascisti in grado di aiutarlo, Mattei dopo un iniziale sbandamento riuscì comunque a mettersi in salvo. Non si sa come, contattò l’avvocato socialista Virginio Bertinelli, che di lì a pochi mesi sarebbe divenuto prefetto del capoluogo. Bertinelli lo accompagnò da una famiglia amica, quella del cravattaio Adriano Broggi, che abitava in via Vittorio Emanuele, a un centinaio di metri dalla palestra-carcere. Si trattava della scelta giusta, escogitata per fugare qualsiasi sospetto, in quanto Broggi non era noto come antifascista. I padroni di casa, mentre cominciava a rischiarare, furono svegliati di soprassalto. Aprirono la porta e ascoltarono le prime, concitate spiegazioni di Bertinelli. Il super-ricercato fu subito accolto e condotto nella stanza della domestica. Siccome la porta della camera aveva un vetro, fu addossato ad essa un armadio, in modo da celare dall’esterno la vista dell’occupante. Mattei, chiuso nella stanza e isolato dal resto dell’appartamento, ricevette il cibo attraverso la finestra. E lì rimase finché ritenuto prudente nasconderlo. Infondato è perciò, su questo, il racconto di Celotti, che riferisce una rapida partenza dell’evaso per Milano: «Mattei, seguendo, come gli avevo indicato, la linea ferroviaria, arrivò alla stazione Nord di Como Lago e, come poi in seguito seppi, si nascose all’interno di un vagone fermo e, alle sei, prese il primo treno per Milano». Adriano Broggi non svelò mai ad alcuno l’ospitalità concessa in quei frangenti estremi a un personaggio in vista come Mattei. Ad analoghe conclusioni giunse l’uomo che organizzò tutta quanta l’operazione della fuga di Mattei, don Carlo Castelli, al tempo parroco della chiesa comasca di Sant’Orsola: un sant’uomo, colto e mite, che per vent’anni fu poi vicario generale della diocesi di Como.
Castelli, che intervistai lungamente sull’argomento nel 1988, pochi mesi prima della sua morte, si era valso della collaborazione, oltre che del secondino, di altri volonterosi e coraggiosi. Tra questi suor Cecilia Vajani, dell’ordine delle Figlie della Carità, che prestava assistenza ai detenuti, l’economo dell’Orfanotrofio maschile, Della Vigna, la famiglia Corbetta, che abitava in prossimità della palestra-carcere, e un religioso delle scuole cristiane, al secolo Secondo Borgnino. Fu dunque una vera "rete di solidarietà" quella che si attivò per prestare soccorso al capo dei resistenti cattolici. Spatafora fu torchiato dagli scherani di Saletta e già la domenica successiva all’evasione svelò a don Castelli che aveva fatto il suo nome. L’indomani il sacerdote fu arrestato e condotto in Questura, alla presenza del famigerato vicecommissario di polizia. Saletta gli allungò una pistola, ordinandogli di spararsi. Castelli oppose un rifiuto sdegnato. Dovette la propria vita al vescovo di Como, Alessandro Macchi, che reclamò con energia la sua liberazione. Don Castelli mi rivelò che la defezione di Celotti non poco danno aveva arrecato a quanti si erano maggiormente esposti nel favorire la fuga di Mattei. Forse perché anche Celotti aveva "cantato". In ogni caso, Saletta riuscì a mettere le mani sulla grossa somma – cinquantamila lire – che i vertici della Resistenza avevano messo a disposizione dello Spatafora, a titolo di risarcimento, e che era stata depositata presso il Bar Monti di Piazza Cavour, a Como. Mi disse don Castelli: «Nell’unico colloquio che ebbi con Mattei, nel dopoguerra, mi chiese se avessi ricevuto danni materiali per la sua fuga. Gli dissi: "Danni materiali no, ma molti danni morali"».