Da almeno un trentennio Edward N. Luttwak è largamente conosciuto al pubblico italiano per i suoi interventi sulla politica estera americana e per libri come
Tecnica del colpo di Stato, Turbocapitalismo o
C’era una volta il sogno americano. Ma Luttwak è anche un appassionato e raffinato studioso di storia antica. Nel suo
La grande strategia dell’impero romano (Rizzoli), pubblicato negli anni Settanta, ricostruiva infatti i differenti modelli strategici che Roma aveva utilizzato per difendersi dai nemici fra il I e III secolo d.C.
La grande strategia dell’Impero bizantino (Rizzoli), uscito nel 2009, arricchisce quella ricerca, riprendendo l’analisi proprio dove si era arrestata con il precedente volume. In questi trent’anni, ovviamente, Luttwak ha ulteriormente approfondito le indagini, scoprendo la perizia strategica di Bisanzio e «riabilitando» in qualche modo un impero spesso rappresentato in termini negativi. Ma rispetto agli anni Settanta è ovviamente cambiato anche lo scenario internazionale, che inevitabilmente si intravede in filigrana in ogni ricostruzione del passato. La fine della Guerra fredda ha infatti mutato profondamente anche la prospettiva con cui l’«impero americano» deve confrontarsi. Al vecchio mondo segnato dall’equilibrio bipolare e da nette linee di inimicizia, si è sostituito un mondo «unipolare» ma popolato da potenziali rivali. Ed è probabilmente anche per questo che Luttwak si è rivolto a Bisanzio, un impero capace di resistere per 8 secoli in un contesto ostile grazie a una «grande strategia» estremamente efficace.
La situazione in cui si trovò a operare l’Impero d’Oriente era molto diversa da quella in cui Roma aveva dato avvio alla sua espansione. Da cosa dipese la fortuna di Bisanzio? Come riuscì a fronteggiare con successo, e per un periodo così lungo, nemici spesso «senza volto» come quelli che sembrano popolare l’inizio del XXI secolo?«Il successo dell’Impero bizantino dipese da fattori molto diversi da quelli che garantirono l’espansione di Roma. Dinanzi alla minaccia proveniente dalle popolazioni nomadi, l’Impero d’Oriente ebbe infatti la capacità e l’intelligenza di modificare radicalmente la strategia, costruita intorno a principi tutto sommato molto semplici: da un lato, il costante rafforzamento dell’esercito e della marina; dall’altro, la scelta di utilizzare il meno possibile le forze armate, almeno in modo diretto. In altre parole l’Impero d’Oriente, a differenza di Roma, cercò sempre di evitare lo scontro militare. Inoltre non puntò quasi mai ad annientare il nemico, ma cercò piuttosto di indebolire ogni potenziale rivale attraverso strade diverse. Per esempio mediante la corruzione e il sovvertimento dei regimi politici stranieri».
Lei ha scritto che l’Impero bizantino seppe utilizzare soprattutto la diplomazia. Cosa aveva di particolare questo settore a Bisanzio?«La spiegazione della lunga durata dell’Impero d’Oriente sta proprio, in larga parte, nella diplomazia. Pur in un contesto estremamente difficile, Bisanzio riuscì a resistere soprattutto per merito di una strategia fondata sulla diplomazia, cioè sulla persuasione. Una persuasione che serviva a reclutare alleati e anche a spingere i potenziali nemici a combattere gli uni contro gli altri. Proprio nel V secolo l’Impero riuscì infatti a sventare la minaccia di Attila grazie soprattutto a un’azione persuasiva che indusse gli Unni a spostarsi verso Occidente. Ma la diplomazia bizantina era anche in grado di svolgere un efficace lavoro di
intelligence che consentiva una costante informazione sugli spostamenti nei territori ai confini dell’Impero e sui progetti dei potenziali nemici».
In che modo la forza militare entrava nella strategia di Bisanzio?«La persuasione e l’
intelligence sarebbero risultate irrilevanti se non fossero state sorrette da una marina e da un esercito estremamente forti. Una forza che venne di fatto conservata per molti secoli, grazie all’istituzione del servizio militare regolare, a un addestramento costante e ovviamente alla presenza di un sistema fiscale piuttosto efficiente, ereditato da Roma e che poteva sostenere un apparato molto costoso».
Il modello dell’Impero bizantino può oggi offrire qualche elemento per la ridefinizione della grande strategia degli Stati Uniti? «Penso sia necessario diffidare delle analogie troppo semplicistiche. Ma ritengo che la strategia di Bisanzio possa suggerire agli Stati Uniti di oggi diverse cose. Soprattutto, dovrebbe insegnare a evitare di disperdere risorse umane, economiche e morali su fronti scarsamente rilevanti dal punto di vista strategico, concentrando invece l’attenzione su quelli che sono i veri rivali e sulle aree centrali, come l’Asia Orientale, l’Europa e l’America Latina. Inoltre, il principio fondamentale del "codice operativo bizantino" dice di evitare la guerra con ogni mezzo possibile, pur comportandosi come se potesse scoppiare da un momento all’altro. Ma per fare questo è necessario avere a disposizione delle efficienti forze armate, una diplomazia competente e un adeguato servizio di
intelligence. E penso che per gli Stati Uniti di oggi sia proprio quest’ultimo il punto più problematico, attorno a cui sono emerse le maggiori inefficienze. Ma l’
intelligence non è affatto un elemento secondario. Soprattutto perché senza informazione non è mai possibile neppure la persuasione».