Proprio perché ha viaggiato molto e conosce bene il mondo, Jean-Marie-Gustave Le Clézio non ama dare giudizi. «Oriente e Occidente, Nord e Sud, tutte le categorie che si adottano di solito mi sembrano inadeguate rispetto alla realtà – afferma lo scrittore francese, premio Nobel per la letteratura nel 2008 –. Ciascuno di noi è immerso in un contesto interculturale che rende pressoché impossibile rivendicare un’identità al posto di un’altra. Per me non c’è nulla di più pericoloso e nefasto della teoria dello scontro di civiltà sostenuta da Samuel Huntington». Quella di Le Clézio, in effetti, non è una teoria, ma una testimonianza. Meglio ancora: una storia personale, come quella che si legge nel suo ultimo romanzo, Bitna, sotto il cielo di Seul (traduzione di Anna Maria Lorusso, La nave di Teseo, pagine 156, euro 18,00), che l’autore ha presentato in Italia nei giorni scorsi. Quasi una fiaba contemporanea, nella quale ritornano molti dei temi cari a Le Clézio: l’esplorazione ravvicinata di un luogo, il desiderio del ritorno, la celebrazione della forza del racconto e, insieme, la riflessione sull’ambiguità del rapporto fra narratore e lettore. «Di sicuro ho conosciuto le storie prima di conoscere la letteratura», dice.
In che senso?
«Sono nato a Nizza nel 1940 e, insieme con mio fratello, di due anni maggiore di me, ho vissuto la guerra da bambino. Non potevamo uscire in strada a giocare, perché c’era sempre il rischio di mettere il piede su una mina o di essere bersagliati da un cecchino. Per renderci sopportabile tutto questo, mia nonna, che era una donna molto saggia, ci intratteneva raccontando le avventure di Zaco, un personaggio di sua invenzione. Nel creolo di Mauritius, l’isola di cui la mia famiglia è originaria, zaco significa “scimmia” e in effetti il nostro eroe era astuto e scaltro, riusciva sempre a cavarsela anche nelle situazioni più difficili. Ascoltare quelle storie mi ha aiutato a sopportare la guerra».
Quindi in Bitna, la protagonista del romanzo, c’è qualcosa di sua nonna?
«Non era una narratrice crudele, come a volte può apparire Bitna, ma ogni tanto anche lei lasciava cadere una goccia di veleno nel racconto. Una storia, se autentica, smuove sempre qualcosa che ci spaventa. È un elemento che ho voluto conservare nel libro, che dal mio punto di vista riguarda essenzialmente lo scambio di potere che si verifica all’interno di ogni processo narrativo. Bitna è giovane, sana e piena di fantasia. Questo le conferisce potere su Salomé, la donna gravemente malata dalla quale è stata assunta come narratrice. Da parte sua, però, anche Salomé esercita un potere su Bitna attraverso il denaro di cui dispone in abbondanza e del quale, forse, si serve per orga- nizzare ai danni della ragazza una persecuzione che le verrà poi restituita, una volta di più, sotto forma di racconto».
Perché ha scelto Seul come sfondo del romanzo?
«Perché l’ho scritto nel periodo in cui abitavo nella capitale coreana, anzitutto. Eccezion fatta per i nomi delle strade e dei cibi, però, la storia non ha nulla di esotico. Potrebbe essere ambientata in qualsiasi altra città che, come Seul, mostri ancora le ferite della guerra. A Colonia, per esempio, oppure in alcuni centri dell’Italia meridionale. Ancora oggi Seul dà l’impressione di un magnifico specchio rotto, una terra di nessuno nella quale il rapporto con il passato non è ancora stato risolto. Questa, almeno, è la mia percezione, che forse è influenzata da un antico ricordo infantile».
Quale?
«La fotografia, vista su una rivista, di una donna in fuga dal Nord al Sud della Corea durante la guerra all’inizio degli anni Cinquanta. Era una madre giovanissima, scarmigliata e vestita di stracci. Portava sulle spalle il suo bambino e teneva in mano un piccolo paniere. Ho subito immaginato che quella sporta custodisse un animale, probabilmente un uccello, e che un giorno o l’altro quell’uccello potesse rifare la strada al contrario, tornando alla casa che la donna aveva abbandonato».
Un ritorno impossibile?
«Qui è di nuovo la mia esperienza a parlare. Il fatto che sia nato a Nizza è una casualità legata alla guerra, fin da piccolo ho sempre saputo di appartenere a un altro luogo. Ma quale? Forse l’Africa, dove i miei genitori riuscirono a tornare qualche anno dopo? Oppure Mauritius, che però non offriva grandi occasioni a chi volesse trasferirsi stabilmente? Più che per la separazione da una terra, ho sofferto per la mancanza di un luogo natale vero e proprio. Per questo non tengo in eccessiva considerazione la nostalgia, che mi sembra un sentimento debole, poco adatto alla letteratura. I cinesi lo avvicinano all’autunno, ma io continuo a preferire altre stagioni: la mitezza della primavera, lo splendore dell’estate, perfino il rigore dell’inverno».
Lei ha esordito poco più che ventenne come autore sperimentale, ma poi il suo stile si è fatto sempre più semplice, fino a diventare cristallino. Come spiega questa evoluzione?
«Con il passare degli anni, che non comporta tanto un accumulo del tempo passato, quanto una graduale sottrazione del futuro. È normale che da giovani si voglia provocare, mettersi alla prova, dare libero corso alla fantasia. Quando scrivevo i primi libri, il mio modello letterario era J.D. Salinger, che ritenevo inarrivabile nelle sue costruzioni narrative. Oggi, invece, considero la semplicità come una conquista. Amo l’esattezza dei versi di Rimbaud, ma l’autore che più sento vicino è un italiano, Cesare Pavese. Nella sua opera, in particolare nel Mestiere di vivere, c’è una capacità di prestare attenzione a ciò che davvero conta nella quale mi riconosco pienamente».
La sua ricerca è esclusivamente letteraria o anche spirituale?
«Un romanzo assomiglia molto a una composizione musicale: la melodia, il crescendo, un tema che si ripropone in momenti diversi. La musica, non è a caso, è la forma d’arte che mi commuove nel modo più profondo, fino a farmi scorrere le lacrime. Forse perché ha a che fare con l’invisibile».
Davvero non vuole dire nulla a proposito di quello che accade oggi nel mondo?
«Soltanto che sono ottimista e che, secondo me, non c’è alcuna alternativa possibile. Bisogna guardare al futuro con fiducia, non si può e non si deve fare altrimenti».