Franz e la moglie Fani nel film di Malick
Può l’atto di un uomo qualunque influire sul destino del mondo per la sola forza della sua anonima testimonianza? È la domanda che percorre col crescendo di una sinfonia «Hidden life» («La vita nascosta»), capolavoro di straordinaria forza cinematografica e spirituale del regista americano Terrence Malick, presentato nell’ormai remoto Festival di Cannes 2019 dove conquistò il premio della giuria per poi sparire in attesa della distribuzione in Italia prevista per i primi mesi del 2020, ovviamente rimandata, sino alla fine di agosto. Ora una diffusione semi carbonara in sale dove il distanziamento è assicurato dallo scarso numero degli spettatori sembrerebbe destinare all’oblìo una pellicola che, invece, si impone per forza narrativa, intensità dei contenuti, capacità di penetrare fino al fuoco vivo dell’anima. E che merita di essere segnalata a chi sogna di uscire da un cinema col piacere inimitabile di sentirsi chiamato in causa nel più profondo, interrogato da una storia autentica, capace di commuovere e incoraggiare, e di portare per mano a diretto contatto con noi stessi.
Malick ama le strade fuori mano percorse giocando con l’inconfondibile gusto dell’immagine, del montaggio e dei tempi lunghi nell’indugiare dentro i risvolti di una storia. Un registro che può incantare o assopire, secondo le recensioni – non tutte entusiastiche, va detto –, come già accadde nel 2011 per «L’albero della vita». Ora «Hidden life» – tre ore abbondanti, ma con assai pochi ristagni del racconto – amplifica l’incanto dell’ambientazione (qui le magnifiche montagne tirolesi, con scorci di una natura che ha le sembianze del Creato, abitata dal costante senso di una presenza) mettendoci di fronte alla storia vera di Franz Jägerstätter (1907-1943), umile contadino austriaco che dal villaggio natale di Sankt Radegund offrì durante l’ascesa trionfante del nazismo una testimonianza di fede inflessibile quanto apparentemente inutile rifiutandosi di cedere all’obbligo di giurare fedeltà al Führer e di combattere per lui.
Poteva sembrare l’ostinazione di un perdente, destinata a sbiadire nel nulla, e invece siamo ancora qui a chiederci cosa ci dice. Grazie a Malick, e alla Chiesa che l’ha beatificato (il 26 ottobre 2007 nella cattedrale di Linz). Perché Franz è un santo di quelli che aprono una strada dove pareva impossibile, e lo fanno dando la propria vita come eloquente testimonianza. A impedirgli di piegare il capo come i primi cristiani alla prepotenza pagana dell’imperatore fu la sua fede cristiana, tanto ferma quanto semplice, che lo faceva sentire figlio di Dio e servo di nessuno, per questo libero anche nella feccia della prigionia più disperata. Il suo rifiuto tenace di pronunciare quella che per tutti era solo una formuletta retorica quanto vuota recitata pensando ad altro è una scelta biasimata dai suoi compaesani, che gli costa l’emarginazione sociale e poi la separazione forzata dalla famiglia con l’arresto e una lunga e penosa carcerazione sotto le unghie degli aguzzini nazisti che davanti al mistero di un contadino di montagna hanno la duplice reazione della violenza cieca o della domanda che brucia come la sete: perché lo fa? Perché quel sempliciotto preso dalla stalla e dall’orto non accetta uno dei mille compromessi che via via gli vengono offerti – dal sindaco, dalla famiglia, dai carcerieri, persino dal parroco e dal vescovo – per aver salva la vita e poter tornare dalla moglie Franziska e dalle loro bambine? Dal campanile del villaggio i tocchi che chiamano alla sosta nel lavoro per una preghiera rimbalzano sulle pareti dei monti e impongono in alcune scene del film la voce di un altro protagonista, che sembra chiedere agli uomini ciò che hanno fatto del loro prossimo. E offre un dialogo a chi non vive da rassegnato.
Di proporzionale alla fede, che Malick va mostrando via via come il segreto e la forza di un’anima buona spalancata sul mondo, c’è solo l’amore sconfinato per la sua "Fani", che subisce la scelta del marito per poi capire che si deve fidare di ciò che lui vede con tanta chiarezza. Il dialogo tra i due dà vita a un epistolario di sorprendente intensità mistica (edito in Italia dal Pozzo di Giacobbe: «Una storia d’amore, di fede e di coraggio»): due contadini umilissimi, due innamorati che si scambiano frasi di bruciante vibrazione umana e divina, un dialogo che giunge al mistero stesso della vita, nascosto a tutti tranne che a Dio e alle loro anime che si sentono afferrate l’una all’altra, per sempre.
È difficile non trovarsi coinvolti nelle fibre più intime dalla progressione che accanto al dramma incombente su quello che per il regime è un pericoloso disertore fa scorrere la contemplazione sempre più trasparente del destino eterno che ci riporta a casa, come al maso tra i pascoli e i boschi in attesa dell’uomo che ha lasciato tutto per restare fedele a Dio. Anche Franziska capisce che la morte è definitivamente vinta solo da chi ama sino a quel punto. Raggiungerà in cielo Franz nel 2013, ormai centenaria, sei anni dopo la beatificazione del marito firmata da Benedetto XVI che volle chiamare l’esecuzione del giovane tirolese nel carcere di Brandeburgo il 9 agosto del 1943 con il suo vero nome in lingua cristiana: martirio.
Per giungere sino all’osceno buio della stanza dove il boia dà corso alla condanna a morte, decretata da un giudice che con Franz tenta un disperato colloquio, uscendone invece sconvolto da inaudite parole di pace e libertà, Malick non ricorre a nessuna scorciatoia emotiva, non spreca una parola, un’inquadratura. E riesce nel miracolo di consegnarci un film imperdibile per chi crede che la fede abbia senso se diventa una sola cosa con l’esistenza, il respiro, il battito, l’umanissimo amore.
Quando l’ultima scena è sfumata, ecco infine le parole di George Eliot sui titoli di coda a consegnarci una luce per i nostri giorni che tanto spesso ci sembrano così vani: «Il bene a venire del mondo dipende in parte da azioni di portata non storica; e se le cose per voi e per me non vanno così male come sarebbe stato possibile lo dobbiamo in parte a tutti quelli che vissero con fede una vita nascosta, e riposano in tombe che nessuno visita».