Il cantautore romano Francesco De Gregori, in un momento del concerto all'Out Off di Milano - Mauro Pomati
Una saletta piccola, con l’ultima fila fatta di sedie da caffè, un colonnato antico per scenografia e un palco con il sipario alzato e gli strumenti già piazzati, in attesa di quello che per “brevità” si fa chiamare “artista”, Francesco De Gregori. Siamo forse tornati indietro, al Folkstudio, nel cuore di quella Roma degli anni ’70 che non c’è più? No, siamo nel 2024 a un passo dallo sky line, all’Out Off di via Mac Mahon, passaggio testoriano dopo il ponte della Ghisolfa, finiti dentro una sera d’inverno e di scighera (nebbia) milanese, ma illuminata dalle luci di un palcoscenico dove puntuale, senza carrozza, si presenta il Principe dei cantautori. Spettacolo per pochi (200 posti) questo Nevergreen (Perfette sconosciute) in cui, volutamente, per un capriccio del Principe, i classici, La donna cannone, La leva calcistica della classe 68’, Generale… vengono riposti in un baule, ma sempre alla portata, buoni come certi vestiti di scena da indossare, e magari da inserire nelle scalette delle future esibizioni. Così, dalla valigia del cantautore escono soltanto quei pezzi «celati» dentro vecchi album.
Quelli che i seguaci dei canti degregoriani conoscono a memoria, dagli inizi dei ’70, mentre gli altri appassionati più distratti, ma ammessi generosamente per una notte alla corte del Principe, sono costretti a fare sforzo di memoria e a ricucire le parole con la musica, a partire dall’incipit del concerto. De Gregori apre con un omaggio, senza citarla (ma solo perché è ancora freddo), alla pasionaria della musica popolare, Giovanna Marini, scomparsa lo scorso maggio, cantando il brano che dà il titolo al loro album anarchico e di resistenza, Il fischio del vapore. Disco necessario e consigliato agli smemorati di Cologno e affini, registrato nel 2003, che si chiudeva con un evergreen, ormai mondiale, Bella ciao e un brano in coda, che c’era da sperare da trovare in Nevergreen, O Venezia che sei la più bella. Ma per questo forse serviva l’imprescindibile coro e la Banda di Testaccio e non la pur virtuosissima band portata da quest’uomo con il cappello sopra gli occhiali e la barba non più rossiccia, ma candida come la neve, il cui fiore in bocca è un microfono che rimanda una voce più cristallina e potente dei giorni in cui era ragazzo e già stracciava tutti con la fantasia. Quest’uomo, dal fisico asciutto e dal look minimal, giacca di scena, t-shirt su jeans e sneakers, che di schiena sembra un giovanotto.
Anzi, un Lorenzo Jovanotti (uno degli ospiti delle serate precedenti) che si muove sul palco da padrone del vapore, almeno dal 1979, anno del tour di Banana Republic vissuto con quel genio del suo amico, Lucio Dalla. “L’Autore”, come si autoproclama, non ha nessuna intenzione di spiegare al pubblico la scelta delle canzoni (per quella rimandiamo al libro Francesco De Gregori. I testi. La storia delle canzoni, a cura di Enrico Deregibus, Giunti) ma proprio dal cilindro di Banana Republic tira fuori Bufalo Bill e dall’album omonimo, del ’76, una eterna quanto struggente Atlantide.Ed entrambi i brani li canta con una maestria pari solo a quella del suo idolo di sempre, Bob Dylan omaggiato nel concept Amore e furto. E’ una miniera, con dentro la ragazza, il repertorio di De Gregori e lo capisci quando torna con la memoria agli inizi. Lo fa con Caterina, e qui la cita la sua amica e buona stella Caterina Bueno, grande interprete, quanto la Marini, di quella musica popolare che proprio il giorno del concerto ha perso per sempre Giuseppe Morandi: il cantore della musica dialettale padana e fondatore, con il fraterno “Micio” Azzali, di quella alternativa Lega di Cultura di Piadena, che era composta da braccianti e operai. Una fola del secolo scorso che l’Autore conosce bene e per questo oggi favoleggia. Passa dalla storia macabra ma purtroppo sempre più attuale di una gioventù bruciata e delittuosa ne L’assassinio di Babbo Natale, alla più civile e postbellica storia del mutilato di guerra Gamba di legno a Parigi, creatura angosciata che dorme nella Ville Lumière in attesa del referto medico e intanto sogna di svegliarsi ad Atene. Oniricità dell’Autore stregato dalle incisioni di Max Klinger la cui Parafrasi sul ritrovamento di un guanto gli ha ispirato la mirabolante avventura di un oggetto, Guanto, che è la metafora di passioni vissute e incontrate nel suo lungo viaggio.
L’Autore non è più solitario, invita a salire tutti a bordo, ma i suoi ospiti non viaggiano in seconda classe e neppure sul Titanic (album da capolavoro mundial, 1982), ma dalla stiva di quella mitica nave ritira fuori I muscoli del capitano e LAbbigliamento di un fuochista. De Gregori è una delle poche voci rimaste in circolazione che hanno ancora la capacità di scorticare le nostre coscienze addormentate. E ci riesce ancora. Ci riesce sempre, specie con I matti uno dei suoi capolavori “nevergreen” come Mimì che non so se ha eseguito o mai eseguirà in questo tour surreale e fantastico che a Milano si chiuderà, purtroppo, sabato 23 novembre.Sono tutti Pezzi davvero di vetro, che tagliano per l’emozione. Pezzi di storia collettiva, sedimentata negli scaffali remoti delle case di quella generazione, l’ultima, che è cresciuta imparando le poesie a memoria. Perché sono poesie quelle narrazioni, a volte scarne ed ermetiche del Principe, che, finalmente, con la saggezza dell’inossidabile talento precoce si scrolla di dosso il peso della scostante Guarda che non sono io.
Il De Gregori dell’Out Off abbraccia e cerca l’abbraccio, e al mio «come sono contento», di esserci qui e ora, si lega il suo «stasera sono un libro aperto, mi puoi leggere fino a tardi». Così in questa piena, magica e reciproca armonia invita il pubblico pagante a sottolineare il suo gradimento non più con l’applauso, ma salendo sul palco per danzare al suo fianco. E lo fa sulle note finali dell’unico classico invitato alla festa di Francesco, Buona notte fiorellino. Sapere che qui, a Milano, è riuscito a farla ballare anche il sindaco Sala, e senza inciampare in qualche buca, mi fa lasciare l’Out Off con la speranza che la fantasia potrebbe tornare al potere. Ma solo finché a cantare e a cantarcele ci sarà un Principe dei poeti, come Francesco De Gregori.
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