Giovanni "Ciccio" Di Veroli difensore della Lazio che contrasta l'avversario granata in un Torino-Lazio della stagione 1954-'55
Roma, Stadio dei Centomila (futuro Olimpico), 13 novembre 1955, in campo si disputa Lazio-Torino. In tribuna stampa, con il suo taccuino da poeta, un insospettabile scriba di sport annota e poi pubblica: «Vivolo passa a Muccinelli e Di Veroli arriva quasi in porta. Selmosson prende il passaggio , qualcuno dà un calcio negli stinchi a Di Veroli, poi vedo per due minuti consecutivi Rigamonti, che, come un gatto, salta di qua e di là, gli sfugge la palla di mano come un gatto con il gomitolo, ma un nuovo balzo la raggiunge». Non è il resoconto del poeta del gol Pier Paolo Pasolini, né quello dello scriba massimo di sport, Gianni Brera, inviato a Roma, e nemmeno del suo nobel personale Giovanni Arpino, calato da Torino per assistere da juventino al match degli stimati granata. Bensì si tratta di uno degli intellettuali più eclettici che ha prodotto il ‘900 italiano: il poeta, scrittore, sceneggiatore, commediografo e pittore Cesare Zavattini. Il visionario di Luzzara, per brevità chiamato artista, la mente fantastica del neorealismo, sceneggiatore di 80 film di cui una ventina girati dal suo sodale Vittorio De Sica (insieme firmano i capolavori Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. del 1952), aveva debuttato nel giornalismo alla Gazzetta di Parma, e poi tra riviste umoristiche e satiriche fondate (il Bertoldo e Settebello) e le collaborazioni a settimanali, ha descritto come pochi altri il costume dell’Italia postbellica e del boom economico, calcio compreso.
Zavattini cronista sportivo per una domenica
Anche se nel testo riportato e appena rieditato dalla fulgida memoria di cuoio di Carlo Martinelli per le sue preziose edizioni semiclandestine - POColibri (pocolibri@gmail.com) - , Zavattini ammette candido: «Non sono nato per fare il cronista sportivo, bisogna stare con gli occhi incollati alla palla e respingere le infinite seduzioni, il colore, le bandiere, le cassette dei venditori di bibite, che danno dei bagliori come specchi». Ma per una domenica, il destino del teatrale “Zabum” incrocia quello dell’unico ebreo romano diventato un calciatore di Serie A, il terzino di quella Lazio del ‘55. Quell’estemporanea cronaca zavattiniana non si trova nel libro Una stella in campo. Giovanni Di Veroli. Dalla persecuzione razziale al calcio di serie A (Paolo Emilio Persiani editore. Pagine. 104. Euro 15,90), scritto dallo storico e giornalista di fede laziale Paolo Poponessi con Roberto Di Veroli, il figlio di Giovanni. Classe 1932, Giovanni Di Veroli, per la sua famiglia e il popolo del ghetto di Portico d’Ottavia era semplicemente “Ciccio”. Un bambino nato con il pallone attaccato ai piedi, protagonista delle partitelle di strada tra i pischelletti con la stella di David stampata nel cuore. Difficile però per un bambino ebreo romano sognare un futuro nel calcio in quei giorni bui del ’43. Da cinque anni erano entrate in vigore le leggi razziali e il 26 settembre le SS di stanza nella capitale fanno sapere alla gente della comunità del ghetto che devono consegnare cinquanta chilogrammi d’oro nello spazio di un giorno e mezzo.
"Ciccio" Di Veroli, il piccolo ebreo scampato alla deportazione a Birkenau
Il 16 ottobre, 1022 ebrei vennero deportati a Birkenau. Dal lager della morte dopo la Liberazione torneranno 16 persone (una donna soltanto). Molti i bambini finiti nella camera a gas e mai più tornati a giocare con quei coetanei come Ciccio Di Veroli, cacciato dalla scuola perchè ebreo e che per sbarcare il lunario aiutava suo padre Prospero, “urtista” venditore ambulante di ricordini di santi. Con la sua cassetta (da urtare con il rintocco) Ciccio girava per una Roma città aperta dal ’43, ma in cui il pericolo di finire nei campi di sterminio nazifascisti era sempre dietro l’angolo. «Se ti prendono non tornare più a casa, perché vedrai, loro ti prendono e ti rilasciano e ti seguono così prendono tutta la famiglia, ci prendono tutti e 40 e ci ammazzano», gli ripeteva papà Prospero. Giovanni si stampa nella mente quell’avvertimento paterno e si difende di notte con i suoi cinque fratelli nel rifugio. Di giorno continua a fare l’ambulante salendo e scendendo dal tram della capitale finalmente liberata: il 4 giugno del ’44 dalle truppe americane del generale Mark Clark. Un autocarro dei volontari ebrei della Palestina sotto mandato britannico alla fine del ‘45 darà un passaggio ai Di Veroli: destinazione Milano, dove il padre aveva già avviato un’attività commerciale in via Larga, a due passi dal Duomo. Sotto la Madonnina Ciccio continua a giocare vestendo la maglia dell’Ambrosiana Inter. Nel ’49 l’anno della sciagura aerea di Superga dove perì il Grande Torino (4 maggio) fece il viaggio di ritorno a Roma con la sua famiglia, e forte dell’esperienza interista entrava nella neonata compagine ebraica della Stella Azzurra. Società fondata nel 1950, «l’unica squadra giovanile romana con il tifo organizzato», ricorda Cesare Di Veroli, fratello di Ciccio.
La Lazio lo scopre e lo tessera come professionista
Il calore della tifoseria galvanizzava il giovane difensore che durante una partita sentì urlare dagli spalti: «C’è speranza per la Lazio!». Era il grido giubilo di un osservatore della S.S. Lazio, prima squadra di Roma dal 1900, che non stava scherzando. Quel terzino dal fisico poderoso e il tocco di palla ancora grezzo era idoneo per la formazione giovanile biancoazzura che doveva affrontare l’imminente Trofeo Ercoli del ’52. Nella prima edizione Ciccio Di Veroli partecipa al derby stravinto contro i parietà della Roma (4-1) e al III Ercoli le sue prestazioni incuriosiscono il mister della prima squadra Giuseppe Bigogno che lo convoca per il ritiro precampionato, a Fiuggi. È l’inizio di quella breve e intensa carriera da professionista. Quattro stagioni da ricordare, con una Coppa Italia, il primo trofeo vinto dalla Lazio nella stagione 1957-’58, che Di Veroli fa in tempo ad alzare al cielo, prima di chiudere con il calcio. Nella stagione 1958-’59 Di Veroli rifiuta la cessione al pur dignitoso Palermo, appende gli scarpini al chiodo e da buon figlio d’arte di commerciante in via del Corso apre un negozio di camicie. Resterà sempre fedele alla Lazio ringraziandola a vita per la grande opportunità che gli aveva concesso, ma abbandona il mondo del calcio. Quel mondo che non aveva stregato il cronista Zavattini che quella domenica seguendo le azioni della Lazio di Di Veroli sottolineava con stupore: «È una cosa meravigliosa che in mezzo a questo intrigo, i competenti riescano a veder chiaro come la geometria. Vedono per esempio il catenaccio, il metodo, il sistema, scrivono quei minuziosi esatti articoli, hanno visto tutto. La competenza non deve escludere l’onestà, se uno è competente ma poco obiettivo, finisce male, può tradire anche la sua competenza, per esempio quel giornalista, quel tecnico che ha riferito il mio pezzo contro Barassi, cambiando perfino le parole di una mia frase».
Fotoreporter alla Guerra dei sei giorni
Oltre il calcio c’è di più. Di Veroli lo sapeva bene e attratto dalle radici ebraiche nel ‘67 si spinse in Israele. Osserva dal fronte la Guerra dei Sei Giorni che con la sua Nikon al collo seguì con il piglio del fotoreporter. Quell’ex terzino grintoso per scattare le foto (inserite nel libro Una stella in campo) arrivò fino «alla penisola del Sinai, documentando gli effetti dei combattimenti in varie località, come El Arish, il canale di Suez, i dintorni di Ismalia». Zavattini se ne è andato per sempre il 13 ottobre del 1989 lasciando la sua scia inconfondibile del maestro di tutte le arti. Di Veroli, poco noto anche al popolo dell’Olimpico, prima di volare via per sempre, - il 1° giugno del 2018 - girava ancora in motorino per le strade della sua amata Roma. «Era rimasto fedelissimo alla sua Lazio - ricorda Poponessi - e va ricordato oltre che come calciatore come un uomo che ha attraversato davvero il Novecento, affrontandolo in qualche modo da protagonista e vivendone, in particolare, alcune pagine drammatiche».