I Manhattan Transfer, Trist Curless, Janis Siegel, Alan Paul e Cheryl Bentyne (foto S.R. Barnett)
Hanno appena festeggiato 45 anni di carriera chiudendo ieri le tre date italiane accolti dall’entusiasmo che provoca ogni volta nel pubblico il loro virtuosismo. Stiamo parlando dei Manhattan Transfer, il gruppo vocale che ha saputo superare ogni barriera tra i generi musicali, incorporando jazz, pop, R&B, rock and roll, swing, classica e musica a cappella. Il quartetto vocale composto da Cheryl Bentyne, Alan Paul, Janis Siegel e Trist Curless (che ha preso il posto del compianto Tim Hauser, il geniale fondatore del gruppo scomparso nel 2014) ha alle spalle dieci premi Grammy, milioni di dischi venduti nel mondo a partire dal 1972, e ben 12 nomination ai Grammy nel 1985 con l’album Vocalese. E anche loro festeggiano i 100 anni della nascita del jazz, genere che in definitiva sta alla base del loro successo, come raccontano ad Avvenire.
I Manhattan Transfer hanno avuto libertà di sperimentare negli anni ’70 e ’80, passando dal jazz ad altri generi musicali. Oggi sarebbe ancora possibile?
Alan Paul. «L’industria musicale negli anni ’70 e ’80 era molto diversa da adesso. Era veramente un’età dell’oro. Siamo stati molto fortunati ad aver firmato con l’Atlantic Records. Ci hanno voluti il fondatore e l’allora capo della compagnia, Ahmet Ertegun. Credevano nella nostra musicalità e ci hanno dato massima libertà di espressione e permesso di affermarci come gruppo».
Nel 2014 è scomparso il vostro fondatore Tim Hauser: qual è stata la sua importanza musicale?
Alan Paul. «Il contributo musicale di Tim è stato enorme. Lui ha inventato i Manhattan Transfer, intesi come quartetto vocale con due uomini (tenore e basso) e due donne (alto e soprano) che cantano a quattro parti strette, armonicamente parlando. Una sorta di versione vocale della sezione sax della big band di Count Basie».
I Manhattan Transfer hanno fatto scuola per l’uso innovativo della voce attraverso il vocalese: quale la vostra formula e come si è evoluta negli anni?
Alan Paul. «Il vocalese è uno stile di canto nel quale il vocalist canta una melodia composta in origine per uno strumento. I cantanti che hanno iniziato a usarlo verso la fine degli anni ’40 sono stati Lambert, Hendricks e Ross, Eddie Jefferson e King Pleasure. La nostra collaborazione con Jon Hendricks negli anni ha contribuito a colmare il vuoto temporale tra loro e noi. La formula, così come ce l’ha insegnata Jon, era di simulare le emozioni degli strumentisti e lasciare che le parole fluissero. Noi, come Al Jarreau e altri, abbiamo fatto evolvere il vocalese, facendolo uscire dalla big band e dal bepop per portarlo verso il moderno jazz. Nel senso di Birdland dei Weather Report, per intenderci».
Ci sono molti giovani che hanno seguito la vostra scia. Quale tecnica consigliereste loro?
Trist Curless. «In effetti sono molti. Più che consigliare loro una tecnica, ricorderei quali sono i principali elementi coinvolti nel successo, in qualunque campo: essere bravo in quello che fai; essere una buona persona, affidabile e con la quale è facile lavorare; farsi conoscere e apprezzare da chi è eccellente in quel settore».
Pensate che il canto jazz si sia evoluto o si sia cristallizzato nel passato?
Trist Curless. «Io credo si sia evoluto, anche se lentamente. Si evolve con ogni nuovo tentativo di fondere nuovi stili di musica con il passato. Il punto è se poi questi tentativi possano ancora definirsi “canto jazz”, o siano già altro».
Quali sono stati i riferimenti musicali dei Manhattan Transfer?
Janis Siegel. «Noi siamo stati molto influenzati dai gruppi vocali degli anni ’40, come The Pied Pipers, The Merry Macs, The Smoothies, The Modernaires, The Four Freshmen, The Hi-Los, e da quelli degli anni ’30 come Mills Brothers, The Ink Spots e Bing Crosby & The Rhythm Boys. Infine anche dai gruppi doo-wop e dalla popular music americana».
Come si sposa l’armonia con il jazz e con il pop? Voi siete stati i primi a vincere nel 1981 un Grammy sia nella categoria jazz sia in quella pop.
Janis Siegel. «Per noi è una cosa naturale. Noi applichiamo le nostre armonie jazz alla musica pop e R&B, e la nostra sensibilità pop al jazz».
Avete attraversato 45 anni di musica: la vostra come si è evoluta?
Janis Siegel. «Credo che uno degli elementi che ha contribuito alla nostra longevità sia il fatto che non ci siamo mai definiti: né gruppo vocale jazz, né pop. Abbiamo sempre avuto un’attitudine eclettica che ci ha permesso di seguire le nostre passioni, ovunque ci conducessero stilisticamente. Di conseguenza, per noi era sempre tutto “fresco”, ogni album conteneva almeno una sfida, che noi puntualmente accettavamo».
Il jazz compie 100 anni: cos’è il jazz oggi?
Trist Curless. «È ancora un’importante, vibrante forma d’arte americana che è apprezzata in tutto il mondo. Oggi, con così tanta scelta musicale, il degrado dei vecchi sistemi di distribuzione e promozione e la facilità di accesso alla musica, ogni stile o musicista può sembrare “decaduto”, mentre invece, ed è il caso del jazz, mantiene un grande interesse, addirittura crescente».
Quali sono i dischi jazz che consigliereste ai giovani d’oggi?
Trist Curless. «Sono molti, ma le cito gli essenziali: Kind of Blue di Miles Davis, Black Radio, Covered di Robert Glasper, Time Out di Dave Brubeck, Clifford Brown & Max Roach,The Atomic Mr. Basie della Count Basie Orchestra e Heavy Weatherdei Weather Report».
Cosa dovrebbe fare il jazz oggi per diventare più popolare? Bisognerebbe diffonderlo a anche nelle scuole?
Trist Curless. «Continuare a incoraggiare la gente verso l’esperienza di un concerto o di un festival jazz dal vivo è la chiave. Ancora più importante, proporre ai giovani lo stile ed educarli alle basi fondamentali del jazz potrebbe avere un impatto duraturo. Nelle scuole è altrettanto importante: si educano il pubblico e i musicisti del futuro».