Il prossimo tredici ottobre compirà novant’anni e si può dunque ben dire che lui, della storia centennale del jazz, ha in pratica vissuto tutto. E moltissimo racconta, con voce burbera e sorridente, dalla sua casa di Manhattan: l’importante è non chiedergli il significato del titolo del suo nuovo album, perché a questa domanda soltanto Lee Konitz rimane in silenzio. «Quale titolo? Io non ho dato un titolo al mio disco con Kerry Barron al piano, Peter Washington al contrabbasso e Kenny Washington alla batteria. La mia musica non ha bisogno di titoli…». Non abbiamo capito, se scherzasse o meno; comunque sia Frescalalto, primo cd di Lee Konitz per la Impulse! di cui da nessuna parte si spiega in effetti il titolo (crediamo si riferisca all’affresco di un sax alto in copertina, da com’è firmato il dipinto), non ha bisogno di titoli per conquistare: con la sua bellezza insieme antica e moderna, scintillante nei richiami a ieri e segmentata in modo teso e maiuscolo quando guarda a domani. Come non ha bisogno di venire presentato Konitz, padre nobile del jazz: sax alto, soprano e tenore, nato a Chicago, ha debuttato sedicenne e poco dopo era già fra gli studenti del grande pianista e compositore Lennie Tristano e incideva dischi con l’orchestra di Claude Thornhill. Spostatosi a New York, Konitz ha poi suonato e inciso con Miles Davis, lo stesso Tristano, Stan Kenton, Gil Evans, Jim Hall, Martial Solal, Michel Petrucciani, Charles Mingus, il nostro Enrico Rava, Chick Corea, Charlie Haden, Art Pepper. La sua discografia è sterminata, avendo egli scelto di essere fra i primi e i pochi freelance jazz e alternando così a insegnamento e sperimentazione di molte avanguardie dei decenni passati le collaborazioni e le scritture più disparate, accettate ovunque nel mondo. Dotato di grande tecnica e notevoli doti da improvvisatore che conferma anche in Frescalalto (dove canta pure e si diverte a partire dagli standard per mescervi canzoni Yiddish o citazioni di pezzi d’altro stile), Konitz ha per molti toccato un vertice inarrivabile nel capolavoro Konitz meets Mulligan del ’53, incontro col quartetto senza piano di Gerry Mulligan in cui suonava pure Chet Baker. E senza nulla togliere, anzi, a tutti gli altri dischi e al quasi-90enne di oggi che pubblica ancora cd da mettere in cornice, ascoltarlo virtuoso fra Mulligan e Chet fa capire perché il jazz si possa dire arte.
Che cosa significa “jazz” per lei, oggi?
«La musica è una sfida per me, da sempre. Fare jazz è ascoltare gli altri e poi sedermi al pianoforte e cercare di inventare qualcosa di diverso, o prendere il sax e sempre ascoltando creare musica nuova».
Pensa che ci siano ancora nuove frontiere del sax?
«Assolutamente sì. Ogni giorno, studiando, si cresce. Dalla prima volta che ho toccato uno strumento a oggi sono sempre andato avanti, e ancora lo si può fare».
Anche in Frescalalto lei chiede ai colleghi di «non esagerare ». In che senso? Jazz è pure improvvisare…
«Sì ma c’è un limite: il buon gusto. Quando esci dal seminato danneggi la musica e chi suona con te: per “esagerare” intendo questo, andare troppo distante e terminare col trovarsi fuori dalle righe».
Come ha scelto Barron e la ritmica del nuovo cd?
«Col criterio di una vita: cercare qualcuno che sia interessato a mettersi in gioco con me, che voglia che si cresca assieme, che si diverta a provarci».
Qual è stata la migliore ritmica della sua carriera?
«Difficile dirlo… Elvin Jones alla batteria era un gigante. E così Brad Mehldau al pianoforte. Ma vede, anche se mi chiedesse quali sono i miei dischi più importanti avrei difficoltà, ne ho incisi duecento… Però riascolto tutto, cerco di capire come suonavo, dove sono cresciuto e dove no, e se dopo anni scopro qualcosa che mi sorprende, be’, quello è il massimo. Il criterio per dire se un mio disco è riuscito però è la libertà, non l’aver suonato meglio o peggio. Si cresce solo osando, senza esagerare ma in libertà».
Lei segue ancora gli insegnamenti di Tristano?
«Ma certo. È stato la mia fonte d’ispirazione più alta. Credo di seguirne la lezione suonando quando mi sento pronto per farlo e dando il massimo, nonché studiando ogni giorno per cercare un feeling sempre maggiore con lo strumento. Strano per la mia età? No, doveroso. Anzi, quando sento che il feeling non c’è faccio una pausa, mangio un boccone e poi non vado al cinema: torno allo strumento finché non lo trovo».
Perché canta pure, in brani come Darn that dream?
«Vede, è il punto di partenza del mio suonare il sax! Improvviso con la voce, in qualche modo studiando il pezzo, e solo poi mi ci avvicino con lo strumento…»
Quali sono stati per Lee Konitz i titani del jazz?
«Al sax Coleman Hawkins, Johnny Hodges e LesterYoung, alla tromba Roy Eldridge e poi Billie Holiday. Ancora adesso ascolto i loro dischi, per capire come facessero a far diventare arte la loro sensibilità. S’impara qualcosa solo dall’ascolto dei grandissimi».
Essere stato freelance è valso la pena per lei?
«Eccome, ho potuto dire di no a ogni esigenza delle industrie e scegliere di studiare sempre, sul campo. Mi fossi legato a qualcuno non avrei potuto scegliere con chi e come sviluppare il mio suono. È stata dura, ma sono felice di averlo fatto. Si crea pure coi colleghi un rapporto, decisivo, di condivisione».
Ha lavorato con molti italiani: D’Andrea, Sellani, Cerri, Barbara Casini; e la magnifica collana “Jazz connoisseur” ha appena riedito StereoKonitz del ’69 inciso col complesso di Giovanni Tommaso. Cosa l’ha colpita nel tempo dei jazzisti nostrani?
«Sono migliori di altri. Sono disponibili a suonare e osare, senza barriere. A volte è difficile trovare bravi colleghi, da freelance: ma non in Italia».
Se dovesse indicare i migliori dischi jazz della storia, magari a uno studente, che titoli farebbe?
«Ah, le ho già detto prima i nomi. Tutti i dischi di Hodges, Young, anche Charlie Parker. Grandi pure perché sceglievano di suonare solo grande musica».