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A Delhi le immagini del primo ministro Narendra Modi sono dappertutto, compare perfino nelle pubblicità come testimonial, pervasivo in bandiere, tabelloni all’ingresso di musei, istituzioni, scuole, ospedali e ogni tanto si accompagna all’immagine del Mahatma, Mohandas Gandhi. Che un uomo così controverso, accusato di incitare all’odio religioso e alla violenza, oltre che di limitare la stampa libera, di incarcerare gli oppositori e di corruzione, si possa ispirare a Gandhi è una singolare caratteristica dell’India di oggi. Delhi che ne è la capitale incarna in sé tutto l’orrore, la vanagloria, l’ideologia di un paese che si vanta di avere inviato un proprio razzo sulla luna e ha ancora 500 milioni di persone senza servizi igienici di alcuna sorta. Delhi ha trenta milioni di abitanti per un’India che è diventata la nazione più numerosa del mondo: un miliardo e mezzo di abitanti. La città ha anche un record di inquinamento con limiti di presenza di particolato che sono sei, otto volte la soglia di pericolosità. Si gira con la FP2 e chi se lo può permettere dorme con i depuratori. D’altro canto la scelta del modello di sviluppo proposto da Modi ricalca la peggiore retorica della modernità, quella dei petrolieri (e del carbone che è una delle fonti principali di energia), del traffico gommato (al contrario della Cina qui l’elettrico non è nemmeno cominciato, nonostante il colosso Tata) e delle discariche immense a cielo aperto su cui vivono e muoiono centinaia di migliaia di persone e che vengono considerate una minaccia al clima mondiale. Gli inglesi che hanno dominato questa che era una splendida città Moghul e che ne hanno punito l’ammutinamento radendola al suolo nel 1857, hanno creato poi una metropoli fatta di viali, autostrade, “rettifili” utili al cannone. Per fortuna è anche una città di parchi e di magnifiche rovine Moghul, ma passeggiarvi non è la cosa migliore che possiate farvi.
Oggi la città è anche la chiave di una frattura creata negli ultimi quindici anni di governo Modi, tra la popolazione hindu e quella musulmana (in India 200 milioni, circa il 14 per cento del totale) a Delhi il 10 per cento. In un processo che ha avuto avvio dalle demolizioni ed espulsioni e dai massacri negli slums nel 1976 e nella repressione che ha attribuito alla minoranza musulmana l’origine del terrorismo, oggi la città è divisa: da una parte una classe media e di privilegiati che aspirano agli standard nordamericani e dall’altra enormi souk, mercati, colonies, bidonvilles dove vivono in prevalenza musulmani e hindu “poveri”. Luoghi pieni di vita, sede di una rete di vicinato fittissima, come quella che si produce il giovedi sera a Nizamuddin East di fronte alla tomba del santo sufi Nizamuddin: intorno al suo cenotafio si innalzano i canti mistici qawali, inni a Dio che popolano l’intera notte. Qui a Delhi viene da chiedersi cosa sia rimasto del messaggio di Gandhi di tolleranza e convivenza tra religioni. La risposta arriva da chi gli “slums” li vive direttamente pur con uno sguardo antropologico e filosofico: si tratta di una allieva straordinaria di Stanley Cavell e indirettamente di Wittgenstein, Veena Das. Classe 1945, professoressa alla John Hopkins University ma anche animatrice di ong e istituzioni di mutuo soccorso è la persona che più ha studiato i processi di violenza da parte dello stato indiano e la risposta della gente nella propria quotidianità. Nei suoi libri che trattano il tema della “affliction”, salute, malattia, povertà, della sofferenza sociale e del suo venirne fuori, c’è una capacità di visione generale, “politica” e allo stesso tempo di radicamento nelle esperienze della gente “normale”. Chi si tratti di una madre che racconta le torture fatte al figlio, delle vittime della polizia o della emarginazione sono le “parole“ delle persone a raccontare una dimensione, quella della domesticità che riesce a ricostruire il tessuto umano anche dopo le repressioni e le violenze più atroci. Veena Das dice nel suo libro sugli slums di Delhi: «Soprattutto voglio capire come la vita si forma di nuovo, non attraverso grandi gesti di perdono e riconciliazione, ma attraverso un’etica ed una estetica del quotidiano». È quello che ho solo sfiorato, quando, abbandonando la Delhi dei viali e del traffico mi sono inoltrato nelle colonies più popolari, hindu e musulmane e ho trovato la vita di villaggio, il tempo della gente che gioca a carte o dei bambini che giocano a cricket, le donne in pijama o velate che vanno a fare la spesa, gli uomini che fumano in circolo dallo stesso narghilè, la cura delle case e dei luoghi di culto, i venditori di strada e le donne e gli uomini che stirano agli angoli dei condomini, un mondo in cui il ritmo delle ore e il calare della sera riempiono di voci, gesti, posture, parole, vicinato. Veena distingue tra le reti di amicizia e quelle di vicinato che sono più discrete, quasi anonime ma che riescono a sostenere le persone nella situazione più comune, quella di una precarietà, cioè non solo la povertà estrema, ma quel senso di non potercela fare che pende sulla testa di moltissima gente di questa immensa metropoli.