Ci sono piccoli eroi esemplari dello sport che non finiscono nella grande Storia per un motivo molto semplice: scelgono le vie meno battute, le più impervie, quelle dove restano tracce impercettibili, eppure profondissime nei cuori di chi li ha anche solo sfiorati. È il caso di Ferdinando Rollando, per gli amici sparsi nel mondo, semplicemente “Nando”. Un percorso il suo che si è interrotto troppo presto, quando aveva appena 52anni: scomparso il 9 luglio 2014 e mai più ritrovato, assieme al giovane compagno di scalata, Jassim Mazouni, 16 anni, parigino, al quale voleva far conoscere le meraviglie del Monte Bianco. Fine tragica di un cammino molto umano, sempre carico di gioie e di entusiasmi quasi adolescenziali. Una personalità trasparente e puramente «doppia» quella di Nando, come i mari della natia Sestri Levante.
Nel suo destino c’erano tutte le rotte del giovane marinaio salpato sugli yacht dei miliardari, tanto per "sbarcare" il lunario. Dopo mille avventure e mille mestieri (architetto- urbanista, fotografo, costruttore edile, contadino) fatti e poi lasciati, l’ultima fase della sua esistenza l’aveva dedicata alla montagna. «Nando era un “mulo”, appena si appassionava a qualcosa mollava tutto e con testardaggine e talento si dedicava solo a quella cosa... Tipo diventare guida alpina tra lo scetticismo dei valdostani», racconta l’amico Massimo, uno dei tantissimi “senzaNando”. Diciottenne, Rollando era stato custode del rifugio alpino Chiarella Amiante, da qui il suo innamoramento per la Valpelline e la decisione di “mettere radici” a Ollomont. Luogo da cui si spostava per fare il «cacciatore di montagne in Cina» e infine il «mullah dello sci in Afghanistan». Eclettismo di chi si sentiva «sestrese, valdostano, rustico, artistico, letterario, local, 100% giramondo».
Tante facce di una stessa anima «bella e positivamente spigolosa», sottolinea Antonio Bettanini che ha curato il diario di Ferdinando Rollando: Il cielo di Kabul. La storia del Mullah dello sci( Il melangolo, pagine 218, euro 18,00). Bettanini con l’aiuto del figlio di Nando, Ernesto, ha scolpito per le nostre memorie il ritratto di Rollando attraverso le email che spediva da Kabul. Una missione cominciata con il solito spirito curioso, anticonformista e filantropico, dopo un progetto di «prevenzione al rischio valanghe» presentato all’allora ministro degli Esteri Franco Frattini. «Da grande amante delle nevi, Frattini con il quale allora collaboravo, accolse con grande interesse l’idea di Nando creando i presupposti per la realizzazione del suo progetto», spiega Bettanini. Zaino in spalla, nel gennaio 2011 Rollando lasciava le ricche montagne - care a Luigi Einaudi - di Ollomont, per salire sulle cime povere dell’Afghanistan. In quell’oasi pacifica del Bamiyan, a riparo della guerra e della follia terroristica talebana appena pacata, Nando era andato rispondendo all’appello dell’Aga Kahn Fundation, che aveva bisogno di un esperto di montagna per insegnare lo sci.
«Dopo qualche mese si rese conto che il problema era più grande, e che c’era bisogno di un intervento sulle valanghe. Tutto questo rientrava nella sua filosofia della “rivoluzione alpina”, quella che nel corso degli ultimi duecento anni ha cambiato completamente lo scenario delle montagne europee», spiega suo figlio Ernesto che lavora nella cooperazione e continua a seguire l’Afghanistan da vicino. Almeno 300 l’anno sono le vittime finite sepolte sotto la neve in quella regione, meta degli hippy italiani e occidentali negli anni ’70 e oggi purtroppo nota per lo scempio talebano compiuto nel 2001 con la distruzione delle due statue del Budda. Il vuoto delle nicchie a 2500 metri, così come le voragini culturali e finanziarie delle genti di quei monti, questo piccolo eroe esemplare italiano ha provato a riempirlo con l’idea di una «nuova economia turistica attraverso lo sci». La rivoluzione di Nando poi era scesa in pista. Con l’onlus italiana e l’Ong afghana “Alpistan” si era messo in testa di «insegnare a sciare ai ragazzi della montagna scrive Bettanini in prefazione a Il cielo di Kabul- E lo sci si rivela una formidabile leva di sopravvivenza contro le insidie della natura e nello stesso tempo una piattaforma di divertimento, di cambiamento e di sviluppo delle condizioni e dello stile di vita». E quello stil nuovo, con il consueto piglio carismatico e visionario, l’aveva subito trasmesso all’allora ventenne Sayed Alishah Farang, un giovane cresciuto nelle alture polverose della catena montuosa di Koh-e-Baba. Sayed è venuto su forte, temprato a tutto, a cominciare dall’assenza della luce elettrica e dell’acqua corrente se non quella del fiumiciattolo vicino casa, il torrente dove le donne del villaggio vanno a fare il bucato.
Per Alishah, Nando aveva predisposto degli sci veri in fibra al posto di quelli di legno (con cinghie di cuoio e lattine schiacciate come legacci alle caviglie) che gli aveva visto mettere ai piedi fino alla vigilia dell’Afghan Ski Challenge, il primo campionato nazionale di sci. Cose mai viste prima di allora in quella terra dimenticata da tanti, ma non dagli italiani che nel 1919 furono i primi a riconoscere l’indipendenza del Paese. Ancor prima di Rollando, a Kabul aveva lasciato la sua impronta indelebile l’orientalista Giuseppe Tucci, confinato negli anni ’30 da Mussolini in Afghanistan. La nostra prima missione umanitaria arrivò dai Barnabiti, ordine a cui appartiene padre Giuseppe Moretti che ha avuto modo di saggiare la profonda spiritualità di Rollando. Lo spirito del buon cristiano alla ricerca di un Dio, non distante da quello di Sayed. Con lui è volato a Trento: iscritto al al corso antivalanghe della Protezione civile. E poi assieme nella casa di Ollomont, poi la tappa a Milano, prima di risbarcare a Sestri Levante, «dove grazie a Nando per la prima volta in vita mia ho visto il mare», racconta commosso Sayed. Grazie ai consigli preziosi per sciare ad alto livello, il ragazzo del Bamiyan sfiorato la qualificazione alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang.
Per arrivare in Corea del Sud, il primo sciatore afghano, fino a ieri si è preparato sulle piste di Sankt Moritz, sede del Bamyan Ski Club. Sayed non ce l’ha fatta per pochissimo, ma il suo rimane comunque un risultato straordinario. Memore della lezione di Nando, ha seguito una preparazione da guida alpina più che da sciatore professionista. Levataccia all’alba nel rifugio di Corviglia e arrampicata di quattrocinque ore sui monti sotto l’occhio vigile del coach Andreas Hanni. Le stesse rampicate con il “mulo skipass” alle quali Sayed Alishah Farang si è allenato fin da bambino. Il suo pensiero in questo momento va al proprio Paese, «che non è solo sinonimo di guerre e di bombe ma anche di sport e di sci ad alto livello» e poi naturalmente al suo «maestro italiano». La macchina di “Alpistan” dopo la sua scomparsa si è fermata ma è pronta per ripartire. Intanto nei rifugi del Bamiyan c’è chi ancora intonaLa canzone per Nando: «Così ad ogni passo inventavo le nuove parole. Da scrivere sopra la neve e poi raccontare...». Il testo è di suo fratello Nicola e la canta con la band “I disertori”, un nome che sarebbe tanto piaciuto a Nando che nella sua vita non ha fatto altro che disertare i luoghi comuni per costruire piccoli centri di speranze future.