venerdì 17 maggio 2013
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Un libro in uscita (Gesù, insonnia del mondo, San Paolo) e un altro in lavorazione (si intitolerà Alla ricerca di… e sarà pubblicato da Àncora). Senza contare gli articoli che appaiono regolarmente su Civiltà Cattolica, le lezioni, le conferenze. A 93 anni compiuti, padre Ferdinando Castelli è più attivo che mai. Oltre che molto orgoglioso per l’attribuzione del Premio Bonura, consegnatogli ieri da Avvenire nell’ambito di un incontro sulla presenza del sacro nei narratori contemporanei appositamente organizzato al Salone del Libro. «Per me la letteratura non è solo stile – spiega il gesuita – ma ricerca del senso della vita. Per adoperare la definizione di uno studioso che mi è molto caro, padre André Blanchet, direi che la letteratura è un’esplorazione dell’abisso».Prospettiva rischiosa, non trova?«E perché? Sono sempre stato contrario all’idea che, per essere considerato cattolico, un romanzo debba avere un aspetto pio e devoto. André Gide, in una lettera a François Mauriac, insiste scherzosamente su questo equivoco. Tu sei credente, scrive, non puoi raccontare il peccato. La risposta di Mauriac è di una chiarezza esemplare: un romanziere cattolico ha il dovere di affrontare il male, ma senza aderirvi. Una forma di realismo che richiede distacco, lucidità e – sì – una buona dose di coraggio».Da dove viene la sua passione per la letteratura?«Dalla scuola e in particolare dal ginnasio, frequentato in un collegio di gesuiti nella mia Calabria. Più tardi, quando sono entrato nella Compagnia di Gesù, mi sono imbattuto in una rivista che ha svolto un ruolo fondamentale nella mia formazione. Parlo del <+corsivo>Frontespizio<+tondo>, il mensile fiorentino di ispirazione cattolica che ha rappresentato per me un orizzonte immenso, di grande apertura mentale. L’intuizione della letteratura dell’inquietudine (o, meglio, della letteratura come inquietudine) deriva da due autori che, ancora oggi, mi appaiono come due astri: Giovanni Papini e Piero Bargellini».Ed è così che è diventato critico?«Ho vissuto per molti anni a Napoli, dove insegnavo religione nei licei pubblici. Già in quel periodo collaboravo a Letture, la storica rivista dei gesuiti milanesi di San Fedele. Nel 1970 sono arrivato a Civiltà Cattolica e, contemporaneamente, ho iniziato a tenere corsi sul rapporto fra letteratura e cristianesimo in diverse università romane: la Gregoriana, la Lateranense, la Salesiana. Il resto sta nei miei articoli, nei miei libri».Parlava dei suoi autori di riferimento…«Papini, anzitutto. La sua autobiografia, Un uomo finito, è un punto di partenza formidabile per una ricerca che condurrà alla magnifica Storia di Cristo. È uno dei tanti scrittori che ho avuto la fortuna di incontrare e devo a un colloquio con lui l’indicazione di un autore molto importante per me: Miguel de Unamuno. Un altro consiglio decisivo fu quello di Francesco Casnati, che mi avviò alla lettura di Paul Claudel, il cantore appassionato della fede intesa come bellezza, forma, liturgia. Ricordo di aver assistito a una conferenza di Claudel a Napoli: una vera predica quaresimale, mi creda».Sbaglio o lei predilige i francesi?«No, non sbaglia, Di Mauriac e Claudel ho già detto. Resta Georges Bernanos, per il quale il cristianesimo è lotta, impegno, agonia. E poi Léon Bloy, figura molto discussa, ma visitata da un’affascinante febbre di assoluto. La mia preferenza va però a Julien Green, che nei romanzi e più ancora nel journal ha delineato il male con un rigore ineguagliato».Un altro nome che ricorre nei suoi studi è quello di Shusaku Endo.«Sono stato a lungo in contatto con il suo traduttore dal giapponese, Bonaventura Tonutti, un missionario. I romanzi di Endo furono una scoperta straordinaria: mi sembrava di aver trovato un corrispettivo di Graham Greene, ma in una prospettiva di pensiero completamente diversa rispetto alle categorie occidentali. E mi colpì molto il fatto che uno di questi capolavori venuti dall’Oriente, Silenzio, avesse come tema il martirio dei gesuiti nel Giappone feudale».Siamo comunque nell’ambito dei classici.«Fino a non molto tempo fa non mancavano, anche in Italia, gli autori capaci di affrontare l’inquietudine del sacro: Mario Pomilio, Italo Alighiero Chiusano, Luigi Santucci. Oggi il mercato è particolarmente forte e tende a condizionare gli scrittori. Soltanto pochi tra loro hanno il coraggio di uscire allo scoperto come fa, per esempio, Giovanni D’Alessandro. Ma la mia convinzione è che, se si scruta con attenzione, al fondo di ciascuno c’è sempre la ricerca dell’assoluto. Nella misura in cui è autentico, uno scrittore è sempre religioso, quale che sia la sua posizione confessionale».Non teme che la accusino di parzialità?«Niente affatto: la critica letteraria non parte dall’apologetica, semmai vi approda. Quando analizzo l’opera di un autore, mi imbatto nel mistero dell’uomo e, scoprendo aspetti del suo e del mio animo, arrivo alla conclusione che ciascuno di noi è fatto per l’assoluto. Se si elimina questo riferimento fondamentale, si cade nella nostalgia o, peggio, nell’alienazione».​

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