venerdì 17 maggio 2024
Ritorno a Oliena,il paese nataledel campione sardo dove della sua storiae delle sue gesta parlano anche i muri e ora ancheun progetto scolastico
Gianfranco Zola con alcune studentesse di Oliena e il prof. Pasquale Puligheddu

Gianfranco Zola con alcune studentesse di Oliena e il prof. Pasquale Puligheddu - Web

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Per lo scriba di sport, il cuore sardo Gianni Mura, l’anima del Cagliari dello scudetto del ’70, il leggiunese Gigi Riva era «Ettore», mentre il più grande talento nato e cresciuto in Sardegna, Gianfranco Zola è «Ulisse». E allora, per comprendere le origini, la storia e le gesta di questo Ulisse del calcio, bisogna andare alle radici, nella sua petrosa Itaca, a Oliena. Il borgo nel nuorese (7mila abitanti), sdraiato sotto al Monte Corrasi, in cui l’estate dei Mondiali d’Inghilterra del ’66 venne al mondo questo piccolo grande eroe della storia di cuoio che ha incantato gli stadi del mondo. Una leggenda vivente per le patrie Nuorese e Torres che l’hanno lanciato nel calcio che conta, diventando uno dei massimi protagonisti di quella Serie A anni ’90 che era il campionato più bello e importante del mondo. Un mito per i tifosi di Napoli, Parma, Chelsea e Cagliari, i club in cui è passato lasciando il segno. Il segno di Zola. E tutto questo è storia, che un tempo ad Oliena si sarebbe tramandata oralmente come certi racconti pastorali. Ora invece la saga di Zola circola come i libri di Salvatore Niffoi, ma attraverso podcast e interviste realizzate dagli studenti dell’Istituto Comprensivo di Oliena. I ragazzi della II A con l’assist magistrale del bracconiere di storie Adalberto Scemma, mantovano con cuore sardo anche lui, e ultimo dei fantasisti del Guerin Sportivo diretto da Gianni Brera, hanno messo in campo un progetto proustiano. Alla ricerca del tempo perduto così è diventato il romantico racconto popolare, Chircande a Zola. E rileggendo le testimonianze di chi il genius loci Gianfranco Zola lo conosce bene, a cominciare da mamma Giovanna (92 anni), emerge il ritratto del campione, prima di tutto di umanità.

Oliena per Zola vuol dire le origini, il ritrovarsi con la madre, la sorella Silvia, i parenti e gli amici di sempre come Angelo Mereu. Ma cosa resta del paese che ha lasciato ragazzino per tentare l’avventura del calcio professionistico?
Oliena è rimasta una realtà semplice, dove ovviamente la tecnologia e le mode sono arrivate ma resiste l’attaccamento ai valori tradizionali. Penso alla festa di San Lussorio, che ogni 21 agosto fa tornare in paese tutti quelli come me che vivono e lavorano lontano perché avvertono forte il bisogno di riabbracciare le persone care. Quelle imprescindibili figure della mia famiglia che mi hanno educato al rispetto e ai valori cristiani, ma anche quelle persone che mi hanno aiutato a crescere.

Quello della crescita, per uno che è arrivato fino a 168 centimetri, agli inizi del percorso calcistico è stato un problema. Vincenzo Palimodde, alias “Cenceddu”, suo amico e dirigente delle giovanili del Corrasi, ricorda quel provino con il Torino che lo scartò perché «Gianfranco era troppo mingherlino».
Fu una delusione - sorride - , anche perché ero piccolo, è vero, ma tecnicamente a 11 anni tutti si erano accorti che avevo un qualcosa in più rispetto agli altri coetanei. Il mio primo allenatore, Giovanni Maria Mele che per me è stato come un secondo padre, aveva capito che per emergere dovevo potenziare il fisico. Così mi affidai a Nardino Masu, un campione di sollevamento pesi che aveva fatto le Olimpiadi. Nardino mi prese nella sua palestra e mi rinforzò al meglio per essere competitivo anche fisicamente.

Sua madre ricorda che per il calcio ha sacrificato tutto, anche gli studi. Oggi è impossibile coniugare lo studio con il professionismo?
Io feci una scelta un po’ superficiale di cui non ne vado fiero. Dopo tre anni di scuole superiori mi resi conto che il mio focus à era altrove... Con la maturità e l’esperienza di oggi mi rendo conto che potevo fare entrambe le cose e ai giovani della Lega Pro, di cui sono vicepresidente, ricordo sempre che se vuoi diventare uno sportivo di alto livello oltre al fisico e alla tecnica non devi smettere mai di curare la mente, perché solo così puoi arricchire il tuo bagaglio di conoscenze culturali.

La forza della mente è quella che gli ha fatto superare il gap della prima bocciatura al provino?
Ho capito in fretta che i miei limiti fisici potevano diventare il mio punto di forza. Sapevo che quei ragazzi più alti e più strutturati che incontravo in campo potevano avere la meglio su di me, ma lavorando tanto su quegli ostacoli li ho superati per essere il giocatore che poi sono diventato.

Un campione, anche di autostima, risorsa di cui sono carenti molti millennials, anche del calcio.
Non esistono grandi calciatori che per diventare tali non hanno dovuto affrontare e superare grandi problemi. Questo messaggio vorrei che se lo scolpissero nella mente quei ragazzi che stanno provando ad arrivare a fare del calcio un mestiere: non devono arrendersi alla prima difficoltà o sentirsi dei falliti dopo una sconfitta. Perché è solo nelle difficoltà e nelle sconfitte che ti confronti con la sofferenza e quindi impari a conoscere te stesso con i tuoi limiti e il tuo potenziale. Quando prendi coscienza di tutto ciò, allora stai davvero iniziando a crescere, prima di tutto come uomo che si assume le proprie responsabilità, e poi come calciatore.

Si dice sempre che poi la differenza per emergere nel calcio la fa “la testa”.
Questo vale un po’ per tutte le professioni. Nel calcio il talento va allenato perché da solo non basta. Io ricordo che al Chelsea arrivò ad allenarsi con noi della prima squadra un gruppo di ragazzini, tra i quali c’era John Terry. Beh, alcuni di quei giovani tecnicamente e fisicamente erano anche più forti di lui, ma Terry rispetto a loro aveva già una determinazione, una cattiveria agonistica e una voglia di arrivare che gli altri non possedevano. Aveva appunto la “testa del campione” che lo fece entrare in prima squadra dopo quattro mesi per poi diventare il capitano e un uomo simbolo della storia del Chelsea.

Ma il Chelsea ha eletto Zola “calciatore del secolo”. E il “Magic Box” italiano è stato persino nominato “sir” dalla regina d’Inghilterra.
Non esageriamo, “sir” può diventarlo solo un inglese, ma comunque essere stato nominato “Member of the British Empire” è qualcosa di straordinario che viene concesso raramente a un non britannico e la cosa mi ha toccato nel profondo.

«Zola, un esempio di fair play», si legge nella motivazione. In fondo la laurea l’ha presa sul campo, anche grazie all’Inghilterra.
Sarò sempre grato a Londra dove sono cresciuti e dove vivono i miei figli. Ho avuto la fortuna di giocare nel periodo più bello con la Premier e noi avvertivamo quell’adrenalina, in campo e tra i tifosi, del passaggio a una nuova epoca che avrebbe reso questo campionato ciò che è ora, il più importante del mondo.

Una rivoluzione calcistica che ha condiviso con tanti campioni con cui ha giocato nel Chelsea come Vialli.
Luca è stato un compagno e un amico speciale, un personaggio di grande spessore umano. Era l’intelligenza prestata al mondo del calcio, indimenticabile.

Al Napoli ha giocato anche con il miglior calciatore al mondo della sua generazione: Maradona.
Diego era unico, a partire dalla sua profonda umanità. Un ragazzo semplice, gentile e generoso. Non lo apprezzavamo perché ci faceva vincere le partite, ma per l’uomo che era. Un uomo che aveva i suoi problemi, ma per quelli ha fatto dei danni solo a se stesso. Maradona mi ha insegnato come trattare i tifosi e come essere sempre disponibile con la gente che vede in noi calciatori dei punti di riferimento.

Il fascino eterno del “viceMaradona” del n. “10” di cui oggi si denuncia la triste sparizione in campo.
Hanno pensato che il fantasista non sia più necessario o che al limite può tornare utile solo se si adatta come esterno, a destra o a sinistra, ma a quel punto non è più un vero “10”. Quando ho cominciato a giocare tutti volevano fare il fantasista, perché era il faro del gioco, tutti i palloni passavano dai suoi piedi. Oggi se si guardano i tabellini delle partite ci si accorge che su 60 minuti di possesso palla 50 minuti la tengono i difensori e 10 gli attaccanti. Perciò fare il “10” è diventato un azzardo e i ragazzi si adeguano a recitare altri ruoli.

Da vicepresidente di Lega Pro come vede il futuro del calcio italiano?
La Serie A se vuole tornare ai livelli degli anni ‘90 e competere con la Premier deve cominciare a ragionare a “sistema” e avere il coraggio di investire sempre più sui giovani che rappresentano il vero patrimonio futuro. Le due formazioni Under 23 di Juventus e Atalanta che disputano il campionato di Serie C stanno andando in questa direzione e hanno compreso l’importanza e i vantaggi di investire sempre più nelle nuove leve, le quali possono crescere e migliorare solo se gli viene data la possibilità di giocare. Io ho cominciato dalla C e grazie a Dio ce l’ho fatta.

Ce la farà l’Italia di Spalletti, senza un “10” e senza fuoriclasse a fare il bis ai prossimi Europei?
Un “10” ce l’avrebbe e io l’ho sempre sponsorizzato come tale, parlo di Nicolò Zaniolo. Si è un po’ smarrito, ma con un grande ct come Luciano Spalletti potrebbe ritrovare quella fantasia del talento che ho ammirato agli inizi. L’Italia comunque un fuoriclasse ce l’ha, ed è anche sardo, Nicolò Barella. È il nostro Iniesta. Barella è un grandissimo giocatore che migliora di stagione in stagione, e poi è un ragazzo intelligente. C’è una cosa che ci accomuna: il successo non lo ha cambiato, rimane sempre il bravo ragazzo cagliaritano con i piedi ben piantati su questa terra.

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