domenica 10 novembre 2013
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Parla l’americano Don Doll, entrato all’età di diciotto anni nella Compagnia di Gesù: «Per me la fotografia è stata una seconda vocazione». Collaboratore di molte testate prestigiose, si è dedicato in particolare a ritrarre la vita, i volti e la cultura dei nativi Nella sua esperienza reportage e impegno missionario restano accomunati da una straordinaria capacità di ascolto: «La prima persona che incontrai fu James “Aquila Sacra”, 102 anni, che ne aveva soltanto due quando avvenne il massacro di Wounded Knee, nel 1890. Tramandava la storia ascoltata dai superstiti. Solo dopo avere sentito per tre volte il suo racconto ho iniziato a scattare». I suggerimenti più importanti? «Spero che continuino a venirmi sempre dallo Spirito». 

È uno dei principi cardine della spiritualità dei gesuiti: «Cercare e trovare Dio in tutte le cose». Per capire che cosa voglia dire esattamente e come questo “criterio” possa orientare la vita di qualunque credente, anche negli ambiti più impensabili, può essere utile sfogliare i libri fotografici di Don Doll, magari dopo avere fatto una chiacchierata con l’autore. Il suo nome non è molto noto in Italia, ma negli Usa questo gesuita classe 1937 è tra i fotografi più apprezzati, potendo vantare svariate collaborazioni con il «National Geographic» e altre riviste specializzate, mostre di successo e premi prestigiosi, cattedre universitarie e libri recensiti su giornali come il «New York Times». Entrato nella Compagnia di Gesù a 18 anni, nel 1962 Don Doll viene inviato in una missione dei gesuiti statunitensi tra i sioux, nella riserva indiana di Rosebud (South Dakota). Il suo compito è insegnare nella scuola della riserva. Nel tempo libero fa qualche scatto, ma senza grandi risultati: «Mi piaceva molto fotografare, ma dopo due anni avevo realizzato solo un’immagine veramente bella». Intanto il giovane Don si chiede che cosa fare “da grande”, come cristiano e come gesuita, in altre parole si domanda quale sarà il suo personale modo di cercare e trovare Dio e di mettersi al servizio del prossimo. Non si sente chiamato all’insegnamento della teologia o della filosofia, né alla predicazione degli Esercizi ignaziani, né ad altre strade classiche seguite dai gesuiti. «Una sera di novembre, in un momento preciso che ricordo molto bene, arrivò la “chiamata”. Sentii una voce parlare dal profondo: “Prosegui con la fotografia. È la cosa che più ami fare. Non preoccuparti se ti ci vorranno dieci anni”. Allora, e sempre di più negli anni seguenti, ho capito che la fotografia è la mia vocazione nella vocazione». Inizia così un itinerario umano, spirituale e, si può dire, professionale che è visivamente riassunto nel suo libro più recente, A Call to Vision (acquistabile online su www.magisproduction.org, vincitore del secondo premio ai Catholic Press Association 2013 Book Awards, e in cerca di un editore italiano). Itinerario che lo ha portato in oltre quaranta Paesi, da El Salvador alla Thailandia, dall’Alaska al Congo, sia per descrivere il lavoro dei gesuiti (ad esempio nei campi profughi del Jesuit Refugee Service: ultima, recentissima missione, quella tra i rifugiati siriani in Libano), sia in occasione di reportage più personali. Il più intimo è stato certamente quello sugli ultimi giorni di vita dell’anziana madre, significativamente affiancato a una photogallery sulla nascita del figlio di alcuni cari amici. Non solo in quest’ultimo caso, ma in tutti i suoi lavori, Doll ha messo al centro il rispetto per le persone incontrate, per la loro identità e specificità. «Nei primi anni Sessanta non avevamo molta attenzione alla cultura dei nativi americani – esemplifica –. Semplicemente cercavamo di aiutarli ad adattarsi alla nostra società. Ma nei tre anni di missione tra i lakota ho imparato molte cose, soprattutto a vedere il sacro nelle loro vite». Prendersi il tempo necessario per entrare in una comunicazione autentica con l’altro: una regola aurea tanto per il fotografo quanto per il missionario. E in fondo la vita di Don Doll si gioca tutta su questo doppio registro. Lo si vede bene in quello che è forse il suo volume più intenso, Vision Quest (1995): ritagliando alcuni periodi dal lavoro di insegnante di fotografia alla Creighton University (Nebraska), il gesuita ha visitato in due anni e mezzo varie riserve di indiani sioux. Obiettivo del libro: raccontare attraverso le immagini il processo di riappropriazione della propria identità compiuto dai nativi americani. «La prima persona che incontrai – ricorda – fu James “Aquila Sacra”, 102 anni, che ne aveva due quando avvenne il massacro di Wounded Knee, nel 1890 (in cui i soldati Usa uccisero circa 300 lakota inermi, ndr): tramandava la storia ascoltata dai superstiti. Solo dopo avere sentito per tre volte il suo racconto ho iniziato a fotografare». E non ha nessuna intenzione di smettere. A 76 anni padre Doll continua a girare il mondo con la sua macchina fotografica: «Spero di rimanere fino a novant’anni lo stesso ragazzo che, mentre scattava le sue prime foto, sapeva mettersi in ascolto dei suggerimenti dello Spirito».

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