Vincenzo Arnone - archivio
«Essere allo stesso tempo un pastore e un letterato può aiutare a intuire i segni della concorrenza laica sulla bellezza: non per combattere ma per avere coscienza della propria missione e dell’annuncio» Vorrei intervenire sulla problematica cattolici e cultura da una angolatura particolare che credo non sia stata presa in considerazione: quella del prete cioè che sta nella comunità della gente, nella parrocchia, giorno dopo giorno, non occasionalmente; l’angolatura del prete che fa casa con la gente nella parrocchia e nello stesso tempo cerca di leggere i segni dei tempi che dalla banalità arrivano a dare un messaggio generale. Insomma, dalla parte del prete-letterato. Mi tornano alla mente le parole del cardinale Silvano Piovanelli, come Introduzione a un mio libro: “Sicuramente, non c’è contraddizione tra l’altare e la penna. Anzi non sono pochi i casi in cui proprio salire l’altare ha spinto a prendere in mano la penna. In questa strada don Vincenzo si trova in buona compagnia. Un prete, proprio la missione che svolge possiede una particolare capacità di vedere oltre le apparenze. I suoi occhi sono affinati dalla dimestichezza con la parola di Dio e dall’esperienza diretta con gli uomini.” Non starò qui a rivangare nomi famosi e storicizzati di preti-scrittori- Henri Bremond, Giuseppe De Luca, Primo Mazzolari, Cesare Angelini, Francesco Fuschini… perché la loro operazione culturale pur essendo stata molto preziosa, per noi di oggi risulta ormai datata. I segni dei tempi sono diversi, il tempo è diverso, perfino il colore della terra sotto i nostri piedi è cambiato. Lo affermava già nel 1985 Pietro Rossano: “Oggi tutte le culture della terra stanno subendo un processo accelerato di trasformazione e cambiamento, secondo quando già affermava il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes”. Allora il prete – che è a un tempo pastore e scrittore (o poeta nell’accezione più ampia) – deve avere, uso il termine del cardinale, gli occhi affinati: una “affinatezza” che si conquista con un retroterra culturale, morale e spirituale non indifferente e che forse lo stesso e solo studio teologico non può dare, perché si rischia di finire per lo più nella retorica, nel didascalico. E la cultura – e la cultura cattolica ancor di più – non è né la retorica, né il didascalico; si rimarrebbe distaccati e alla finestra della vita. Il prete-scrittore deve intuire i segni di una concorrenza laica sulla bellezza, sulla religiosità; non disprezzarla, non combatterla, ma a un tempo avere forte coscienza che la Chiesa (La Chiesa!) annuncia Cristo morto e risorto e poi tutto il resto. Il pretescrittore intuisce che – con l’avvento del turismo di massa – l’estetismo fine a se stesso non giova a nulla; è solo appagante sul momento, mentre sia l’arte sia la fede sono un’altra cosa. È questa, in ultima analisi, un’epoca di attesa: bisogna sapere riempire tale attesa col cuore e con proposte che sappiano toccare l’anima fin nelle profondità delle viscere.