domenica 6 novembre 2022
Due reportage di George Gissing e Andrea Caterini, distanti 120 anni fra loro consentono un singolare raffronto sul fascino sempre irresistibile e sulla realtà in divenire del Bel Paese
Napoli nel 1890: la chiesa di San Ferdinando e l’ingresso della Galleria Umberto I

Napoli nel 1890: la chiesa di San Ferdinando e l’ingresso della Galleria Umberto I - Fototeca Gilardi

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Se non ne avesse scritto con ammirazione Virginia Woolf nel 1912 sulle colonne del “Times Literary Supplement”, confortata peraltro circa trent’anni dopo da un intervento di George Orwell, che cosa sarebbe rimasto di George Gissing? Si sta parlando del narratore che criticò senza incertezze l’Inghilterra vittoriana ipocrita e puritana, ma anche del testimone - non per niente autore d’uno studio su Dickens - della Londra dei diseredati, quella dell’East End, dove visse i suoi disperati ultimi anni. Di questo ragguardevole scrittore le Edizioni Exorma mandano ora in libreria il bellissimo Verso il mar Ionio. Un vittoriano al Sud (pagine 336, euro 21), pubblicato a puntate in “The Fortnightly Review” nel 1900, tra gli ultimi documenti europei della letteratura del Grand Tour, con prefazione e postfazione di Mauro F. Minervino. Insieme a questo testo l’editore propone, oltre al saggio della Woolf, le Lettere di viaggio ai familiari e note dal diario, oltre che, sempre di Gissing, un utilissimo e assai suggestivo Luoghi, memorie, visioni. Ricorrenze e citazioni dalle opere.

Per capire che scrittore sia Gissing in questo resoconto di viaggio, conviene forse partire da qui. Lo scrittore è approdato a Reggio Calabria, ultima tappa di un viaggio iniziato a Napoli con meta Paola, che poi lo porta a Cosenza, Taranto, Metaponto, Sibari, Crotone, Catanzaro e Squillace. Dove si ferma sorpreso davanti a una strana costruzione il cui «maestoso portale di ingresso » reca la scritta di « Macello». La sua è la curiosità d’un uomo gaudente cui piace la vita, coltiva nobili sentimenti pacifisti, ama i fiori, le piante e gli animali, non manca di mettere nella bisaccia «dei libri, anche solo per poter affrontare i giorni di pioggia». Ma sentite qua: «La visione di questo luogo eccentrico mi ha dato, per il momento, la strana sensazione di essermi imbattuto nel mondo di quei romanzieri che prevedono certe utopie del futuro». E poi: «Un lugubre mattatoio sì, ma dall’architettura raffinata, incastonato in un boschetto di alberi di limone e di palme da dattero, suggeriva l’ideale sognante di qualche inquietante riformatore delle nuove società del futuro il cui palato è restio al vegetarianismo». Non sorprenda questo riferimento avveniristico, peraltro formulato nella patria di Tommaso Campanella: Gissing fu infatti molto legato, seppure in modo conflittuale, a uno degli scrittori dispotici più celebrati del Novecento: Herbert George Wells. Ma ciò che colpisce davvero lo scrittore è un altro fatto: «in confronto allo sfoggio sinistro di quel mattatoio», a Reggio non ci si era mai preoccupati «di alloggiare in modo altrettanto adeguato la collezione di antichità che la città possiede».

Già, le nobili reliquie archeologiche: quel motivo «libresco» e astratto che aveva spinto Gissing a fare questo viaggio, ma che in fin dei conti, come ci fa notare Minervino, è molto più attratto dal popolo e dalla sua miserevole condizione. L’Italia di Gissing è quella del 1897. Ma è così diversa da quella di oggi? Me lo chiedevo leggendo Ritorno in Italia (Vallecchi, pagine 150, euro 16) di Andrea Caterini, che nasce da tutt’altra condizione. Autore televisivo di programmi «che vengono definiti di territorio» lo scrittore si trova a viaggiare, senza volerlo, per «tutta la penisola». Per ogni destinazione sceglie di portarsi dietro un romanzo. E allora: la Sardegna e Il giorno del giudizio di Salvatore Satta; le Langhe e La malora di Beppe Fenoglio; l’Etna e Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino; la Basilicata e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (da molti lucani non amato); le Foreste Casentinesi e i Canti orfici di Dino Campana; Napoli e La pelle di Curzio Malaparte; la Puglia e Gli inganni di Sandro De Feo; l’Umbria e i Detti e fatti dei padri del deserto (magari con un’introduzione di Cristina Campo); il Carso e Il mio Carso di Scipio Slataper. Ne viene fuori un’Italia «segreta, remota, provinciale».

Caterini è un romanziere che non sa rinunciare alla critica, ma anche un critico che non può fare a meno di narrare: equamente ripartito tra racconto e riflessione. Ecco perché i libri che porta con sé valgono anche come la condizione trascendentale del suo modo d’inventare la realtà (e la verità): «San Benedetto era lo spazio dell’immaginazione. Fenoglio non era il solo scrittore ad aver fatto di un paese un intero mondo». E più avanti: « La vita di un paese -non di una provincia, non di una città- pochi hanno saputo raccontarla come Fenoglio». Il risultato è un libro che può essere letto come una continua riflessione su sé stessi e le proprie radici, ma anche sull’Italia: quella d’un filologo del sentimento. Con qualche verità che può valere come un approdo - un ritorno appunto - non più revocabile. Ecco: «Riscopri, così, che quell’Italia che pure non hai mai abitato, in cui non hai parenti e amici, ti appartiene come fosse un’infanzia che non ricordavi più di aver vissuto». Quell’Italia la quale non è altro che «una contaminazione perpetua». E poi: «l’Italia, in ogni angolo, in ogni più remoto paese, custodisce segretamente la sua infanzia, un’infanzia a cui appartieni pur non avendolo mai saputo». Ogni lettore potrà rincantucciarsi dentro il paesaggio che preferisce: popolato da uomini che reagiscono nei modi più diversi, ma sempre vivi, mentre abitano con cura e orgoglio il loro mondo. Io scelgo la mia Sardegna perché, tra tutti i luoghi restituitici, è quello che meglio so valutare per conoscenza diretta. La Sardegna dell’indimenticabile Pantaleo, pastore ottantenne di Dorgali. Il quale inizialmente diffida del giovane televisivo che fa un lavoro intellettuale: « A giudicarmi non era Pantaleo, ma i segni che aveva sul viso, le rughe che gli tagliavano la fronte, le sue mani tozze, le dita inguaribilmente gonfie. Mi sentivo piccolo, insignificante». È sempre la vita la misura di tutte le cose.

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