Sono partiti talmente in sordina da non usare neppure quel nome carico di storia e di suggestioni, “Olimpiadi”. La prima edizione dei Giochi invernali, a Chamonix nel 1924, soltanto a posteriori ricevette quell’appellativo: sul momento ci si limitò a un più modesto “Settimana degli sport invernali”, tenuta nello stesso Paese che in estate avrebbe ospitato i Giochi di Parigi 1924. Ma, se è partita sottovoce, le Olimpiadi invernali sono rapidamente cresciute fino ad acquisire una dignità (anche se non sempre una visibilità) pari a quella dell’edizione estiva. Tanto da meritare una propria Storia, che Vincenzo Jacomuzzi e Giorgio e Paolo Viberti hanno compilato per creare un dittico con quella estiva. Come in un bob a quattro, i fratelli Viberti sono pilota e frenatore, mentre la spinta viene dai due Jacomuzzi: Vincenzo e, idealmente, suo padre Stefano, il grande critico che con la sua Storia delle Olimpiadi aveva scritto – è lo stesso Vincenzo a dirlo – «il suo romanzo più bello».Se lo sport è l’epopea dell’età moderna, l’Olimpiade ne è l’epica, popolata da moderni eroi le cui gesta vengono cantate da nuovi aedi. E qualcosa di eroico – nel senso terreno del termine, della capacità di andare oltre ai limiti dell’ambiente, del proprio corpo e della propria mente – c’è davvero, soprattutto nelle gesta dei pionieri delle nevi e dei ghiacci. Fin da subito, fin da quel 1924. Thorleif Haug, norvegese, vinse l’oro nella combinata nordica e nelle due prove di fondo: fu nella gara più massacrante – la granfondo – che inaugurò con il suo nome le epopee delle Olimpiadi invernali. Cinquanta chilometri che si snodavano sulle montagne attorno a Chamonix superando un dislivello impensabile per i canoni dei decenni successivi, oltre ottocento metri; proibitive le condizioni atmosferiche, con la neve ghiacciata e spazzata da venti gelidi. A venticinque gradi sotto zero, Haug sciò sulle sue rigide assi di legno senza sciolina (non esisteva ancora) e senza berretto (non lo sopportava); vinse con due minuti di vantaggio, mentre un terzo dei concorrenti abbandonava la gara e soltanto i primi quattro – tutti norvegesi – riuscivano a chiudere in meno di quattro ore. Da quei primi Giochi Haug tornò a casa anche con una quarta medaglia, questa volta di bronzo, nel salto con gli sci. Una medaglia vinta per errore: i giudici avevano confuso il suo nome con quello dell’americano Anders Haugen. Un errore poi risarcito, ma con tempi anch’essi da epopea: fu soltanto quarant’anni dopo che – grazie a un giornalista – l’errore fu scoperto. Nel 1974 anche il Cio rimediò e, in un’apposita cerimonia, la figlia di Haug (morto ormai da tempo) consegnò quel bronzo all’ottantaseienne Haugen, che in un certo senso poté vantarsi di essere – con margine pluridecennale – il più anziano atleta insignito di una medaglia olimpica.Ammantato d’epica appare oggi anche il gran rifiuto di Jacob Tullin Thams a Sankt Moritz nel 1928. Già oro nel salto con gli sci a Chamonix, sul trampolino olimpico di Sankt Moritz il norvegese arrivava da favorito. Erano in programma due salti; dopo il primo Thams era terzo, ma a quel punto gli atleti scandinavi – che pure erano al comando – protestarono per le condizioni del trampolino, che li costringeva ad atterrare in un tratto ghiacciato. Gli organizzatori svizzeri non solo non accolsero le contestazioni, ma anzi accusarono di codardia i norvegesi. La seconda manche partì e Thams, furioso, volle dimostrare a tutti di essere il più forte, anche a costo di rimetterci la medaglia se non peggio: saltò infatti più in là di tutti, a 73 metri (il vincitore si era fermato a 64), ma non riuscì ad atterrare in piedi. Si schiantò sul ghiaccio, rimase esanime, all’ospedale restò tra la vita e la morte per due giorni. Sopravvisse; la sua carriera sciistica era finita, ma si sarebbe rifatto come velista, tornando a medaglia alle Olimpiadi (estive) quattro anni dopo. I giudici di Sankt Moritz, impassibili, avevano intanto emesso il loro verdetto: la caduta era un difetto stilistico troppo grave per essere ignorato e il punteggio relegò Thams al ventottesimo posto.Alle prime edizioni l’Italia non sfigurò, pur senza portare a casa medaglie. Ci sarebbe riuscita nel 1936 in una Garmish-Partenkirchen pavesata di croci uncinate, vincendo la gara di pattuglia militare: specialità antenata del biathlon, dove quattro militari (un ufficiale e tre soldati) alternavano sci di fondo e prove di tiro. Avrebbe dovuto essere la gara dei finlandesi, che erano già al traguardo quando il nostro quartetto – Silvestri, Perenni, Sertorelli e Sciligo, tutti naturalmente alpini –, partito più tardi, doveva ancora arrivare. Lo fece, e i cronometri sancirono un responso impensabile: i campioni nordici erano battuti, gli italiani avevano quattordici secondi di vantaggio. A Garmisch s’era affacciato sulla ribalta a cinque cerchi lo sci alpino, finalmente codificato dopo i primi pioneristici anni, e presto la specialità sarebbe divenuta la più seguita dei Giochi invernali. All’alpino appartengono le gesta di Toni Sailer e Jean-Claude Killy, capaci di vincere (rispettivamente a Cortina d’Ampezzo 1956 e a Grenoble 1968) tutti gli ori a disposizione; all’alpino gli italiani associano i trionfi della Valanga azzurra di Piero Gros, Herbert Plank e Roland e soprattutto Gustav Thöni, il più titolato (e autore di una delle due premesse alla Storia; l’altra è stata affidata al presidente della Federsci Flavio Roda). Più tardi sarebbe venuto il momento di Alberto Tomba e di Deborah Compagnoni. Proprio alle Olimpiadi (Albertville 1992) la valtellinese subì l’infortunio che le strappò quel grido di dolore, rilanciato in mondovisione, che commosse gli appassionati, non solo italiani.Ma vestivano colori azzurri anche i protagonisti di altre imprese: come le due di Grenoble. Nel fondo, la grande sorpresa di Franco Nones, primo atleta non nordico a vincere una medaglia d’oro, tra la costernazione di russi e scandinavi; nel bob, la coraggiosa caparbietà del “rosso volante” Eugenio Monti, che ormai quarantenne strappò quell’alloro che gli era sfuggito prima nello sci alpino, che aveva dovuto abbandonare per infortunio da giovane promessa nel 1952, poi nello stesso bob, dove l’aveva solo sfiorato nel 1956 e nel 1964. E al fondo l’Italia deve i trionfi degli anni Novanta, sia tra le donne – Manuela Di Centa, Stefania Belmondo – sia tra gli uomini. Con un vertice insuperabile: la staffetta che batté i norvegesi a casa loro, a Lillehammer nel 1994. Quest’anno in Russia le probabilità di aggiungere nuove pagine azzurre alla <+CORSIVOAGORA>Storia<+TONDOAGORA> appaiono limitate. Ma nuovi capitoli verranno certo scritti.V. Jacomuzzi – G. Viberti – P. VibertiStoria delle Olimpiadi invernaliSei. Pagine 496. Euro 16,00
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