sabato 21 settembre 2024
Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa venne tradotto nel 1961. Un libro ritenuto reazionario in un Paese comunista? Un saggio di Rago indaga nelle pieghe della politica culturale ai tempi del Muro
Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la moglie Licy affacciati a una finestra del castello di Stomersee presso il Mar Baltico, proprietà della famiglia di lei

Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la moglie Licy affacciati a una finestra del castello di Stomersee presso il Mar Baltico, proprietà della famiglia di lei - WikiCommons

COMMENTA E CONDIVIDI

Da uno scatolone ammaccato nella bancarella di un mercatino di quartiere berlinese Bernardina Rago, studiosa italiana attiva in Germania, nel 2013 tira fuori un libro inatteso, dalla sgargiante copertina rossa e blu: Der Leopard, editore Rütten & Loening, data 1961. Ovvero Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’occhio di chi per mestiere indaga la ricezione della letteratura italiana nella Ddr la fortunosa trouvaille si rivela subito un unicum. E un intrigante giallo che pone mille domande. A partire dalla copertina, firmata dal noto grafico Heinz Unzner, molto distante dal carattere folkloristico che caratterizza quelle pubblicazioni. Poi dalla casa editrice, che non è quella incaricata dal regime di pubblicare letteratura straniera, la Volk und Welt (Popolo e mondo). Non poteva non colpire, soprattutto, l’anno di uscita, quello dell’edificazione del Muro. «Mentre si chiudevano le frontiere Il Gattopardo era entrato, percorso inverso», nota Rago. Ultimo fatto eclatante, la prefazione, scritta non da un qualsiasi italianista accademico, bensì da Alfred Kurella, considerato “l’uomo del Cremlino a Berlino”, direttore della Commissione Cultura della Sed, il partito al potere. E sodale di lunga data del numero uno del regime, Walter Ulbricht. Tra le tante, due sono le domande di fondo: «Che cosa ci faceva il cosiddetto canto del cigno dell’aristocrazia nella “repubblica dei contadini e degli operai”?» e «quali elementi avevano favorito l’ingresso di quello che per Moravia e gran parte dell’intellighenzia italiana era un “romanzo di destra” lì dove si propugnava il socialismo reale e la letteratura progressista?».

La ricerca di Rago su come e perché «un principe siciliano fu fatto socialista» è confluita nel libro Il Gattopardo a guardia del Muro. Storia di un giallo letterario (Feltrinelli, pagine 254, euro 13,00). Una ricerca condotta tra Berlino e Palermo per biblioteche e archivi, dove l’autrice ha scovato documenti inediti. Il mistero si infittisce subito, perché l’opera cha ha per protagonista don Fabrizio, principe di Salina, è irriducibile all’utilizzo che la Ddr pur fece della letteratura siciliana per fini educativi dell’uomo nuovo socialista. Il regime aveva eretto a propri simboli, loro malgrado, Thomas Mann e Johann Wolfgang Goethe, che con il suo Viaggio in Italia aveva plasmato l’immaginario tedesco sull’Isola. Nella propaganda l’arretratezza e il latifondo erano contrapposti alle cooperative agricole. «Non la Sicilia, ma la Ddr è il Paese da sognare» il sottotesto, spiega l’autrice. Ma non basta. Usando lo schema dello “specchio capovolto” la stessa letteratura diventa pretesto per trattare temi a uso interno. Con disinvolti rovesciamenti di prospettiva. Emblematico il caso di Giovanni Verga, i cui Malavoglia nel 1953 (anno delle rivolte popolari contro il regime) sono una “storia di paese”, emblema del collettivismo nelle campagne. Ma nel 1961 (anno del Muro) diventano parte della lotta di una comunità contro le avversità che vengono dall’esterno, contro le quali va eretta - guarda caso - una barriera di protezione (antifaschistischer Schutzwall, barriera di protezione antifascista era il nome ufficiale del serpente di cemento emblema della Guerra Fredda). L’opera di Tomasi, non rientra in tutto questo né per contenuto né per stile. Affresco sull’unità d’Italia, non rientra, però, neanche nel filone del Risorgimento al siciliano visto nella Ddr (anche qui a fasi alterne) in chiave garibaldina rivoluzionaria.

Ma allora come è arrivato il felino siculo sugli scaffali dell’Est tedesco? Non certo per spinta italiana. I due personaggi chiave che hanno permesso l’uscita sono il già citato Kurella e Louis Aragon. Rago traccia un esaustivo profilo del primo, uomo di vasta cultura. Marxista ferreo, frequentatore di Lenin, vissuto a Mosca ai vertici di Comintern e Terza Internazionale, viaggiò molto ed ebbe un intenso rapporto con l’Italia. Il padre psicanalista fece conoscere Cesare Lombroso in Germania e sua madre tradusse la figlia di Lombroso, Gina. Molte le affinità tra Kurella e Lampedusa: l’essere quasi coetanei, le origini aristocratiche (per Kurella da parte di madre), l’essere poliglotti e viaggiatori per l’Europa, gli studi universitari interrotti e la passione per gli Illuministi e il 1789, la conoscenza delle opere di Mann e Goethe. Kurella scrisse anche un reportage sull’Italia di Mussolini, in cui diede ampio spazio alla Sicilia. Ma, al di là delle affinità (con tutte le divergenze del caso) Kurella come si è interessato proprio al così lontano (così vicino) Tomasi?. Le ipotesi di Rago sono molte. Fu il sindaco di Bologna Dozza a consigliare il libro a un intellettuale che, comunque, non poteva non sapere della sua esistenza, dopo la vittoria dello Strega? O fu Ignazio Silone, conosciuto ai tempi del Comintern e presentatore del romanzo al premio?

Fatto sta che la macchina editoriale tedesco-orientale viene messa in moto da un “pizzino” (così lo definisce ironicamente Rago) che Kurella indirizzò a Else Manske-Krausz, responsabile della Rütten & Loening, caldeggiando la pubblicazione. Un fatto inusuale. Di solito, infatti, erano le case editrici a sottoporre le loro proposte al timbro del regime. E, per inciso, una volta ottenuto il “visto si stampi” le opere venivano pubblicate integralmente. Unici casi di tagli daopere italiane, che Rago cita, sono avvenuti per Il giardino dei Finzi Contini, nel quale Giorgio Bassani citava l’imbarazzante patto Molotov-Ribbentrop e Il nome della rosa, per le righe in cui Umberto Eco evocava la Primavera di Praga.

Kurella, insomma, ha a cuore l’opera, benché sia uscita per lo stesso editore (Feltrinelli) del “traditore” Pasternak, di cui pure era stato amico. Il caso internazionale sul Dottor Zivago è di pochi anni prima . Segno ulteriore di come ai tempi la letteratura fosse parte essenziale della contrapposizione tra i due blocchi. Ma nonostante l’autorevolezza di Kurella, l’ingranaggio stenta a partire. E qui entra in gioco Aragon, nume tutelare della cultura comunista. Questi nel 1959 con l’articolo “Un grande predatore è apparso nella letteratura” sdogana l’opera definita «uno dei grandi romanzi di questo secolo», «destinato a restare» e «forse l’unico romanzo italiano». Un articolo che fu «un fragoroso proiettile nell’ambiente letterario della sinistra», commenta Rago. Forse, ipotizza, Aragon, colpendo la critica militante italiana, voleva mandare un segnale ai compagni francesi in chiave antisovietica. Stranamente, nel silenzio italiano e dell’Urss, l’articolo viene fatto tradurre da Kurella. E contribuisce al lento progredire verso le librerie dell’opera, accostata a Manzoni (come Dante, molto letto nella Ddr) e a Stendhal (con il quale secondo Aragon lo scrittore siciliano condivideva una propensione verso il rinnovamento sociale).

Rago segue il periplo delle lettere editoriali in cui si decidevano le uscite e i colpi di scena nella composizione delle collane, con autori che uscivano ed entrano a seconda del vento. E le analizza in modo certosino per individuare, tra le righe, prudenze, suggerimenti impliciti, ovvero ordini mascherati. Un paio di pareri editoriali rigidamente ortodossi sul Leopard fanno fermare tutto. Mentre il via libera viene dato a Contadini del sud di Rocco Scotellaro. Il clima, però, pian piano cambia. In Italia e nell’Urss, dove l’opera viene citata dal fisico Bruno Pontecorvo tra le sue letture nei momenti di relax. Kurella ne approfitta per difendere a spada tratta l’opera il 2 febbraio del 1961, data decisiva. In due occasioni: dapprima nel comitato centrale del partito, poi a sera in una conferenza presso un Club dell’intellighenzia tedesco-orientale. Nei verbali della seduta non si trova traccia del “Leopardo”. Ma la “pistola fumante” Rago la rinviene in una comunicazione tra due papaveri dell’editoria di regime, in cui uno caldeggia all’altro la pubblicazione. Kurella ha vinto. I finanziamenti vengono trovati e il gattopardo può sdraiarsi sull’Unter den Linden. Nel 1966 poi il successo del film di Luchino Visconti approderà anche nelle sale della Ddr. E Il Gattopardo - nota Rago - appare, sotto nuova veste, sempre in momento cruciale, stavolta mentre il regime ha decretato un giro di vite sul mondo della cultura. E chi aiuta il film ad arrivare sugli schermi? Kurella, ovviamente. Ma questa, suggerisce l’autrice, è un’altra storia. Da raccontare.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI