Julian Fellowes è lo sceneggiatore più famoso del mondo, ma se lo svegliassero nel cuore della notte e gli chiedessero qual è il suo mestiere, lui risponderebbe di essere un attore. «È come con il cattolicesimo: non si smette mai del tutto», osserva. Cattolico, in effetti, lo è veramente, oltre che barone di nascita (il titolo esatto è lord Fellowes di West Stafford), e premio Oscar per il copione di
Gosford Park, e interprete di diversi film, tra cui
Viaggio in Inghilterra, e autore di romanzi elegantissimi come
Snob e
Un passato imperfetto, editi in Italia da Neri Pozza. Dal 2010, però, Lord Fellowes è universalmente ammirato come il creatore di
Downton Abbey, la serie televisiva britannica che sta appassionando ovunque milioni e milioni di spettatori. Una magione nobiliare del primo Novecento, con gli aristocratici proprietari che attraversano saloni sfarzosi e la servitù che si ritrova nelle cucine, al piano di sotto. Situazioni che si assomigliano, dilemmi morali che si ripetono, esistenze che si sfiorano con pudore e delicatezza. In Gran Bretagna sta per andare in onda la quinta stagione, in Italia è in arrivo la quarta. «Quello che posso anticipare con certezza è che sì, ce ne sarà una sesta», dice l’autore, salutato con grande entusiasmo dal Festivaletteratura.
Lord Fellowes, si aspettava un successo così clamoroso?«Non sono tipo da mostrarmi sprezzante verso i gusti del pubblico: quando si fa qualcosa, si spera sempre di avere un seguito. Detto questo, sono lieto che alcuni elementi che appartenevano fin dall’inizio al disegno della serie abbiano colto nel segno».
A che cosa si riferisce?«In primo luogo all’epoca storica.
Downton Abbey si svolge nel passato, è vero, ma non si tratta di un passato tanto remoto da risultare estraneo allo spettatore. Il clima non è quello dei romanzi di Jane Austen, tutti carrozze ed estenuanti preparativi per un ballo riservato a pochi eletti. Qui si usano il telefono e il tostapane, si fa avanti e indietro fra Londra e la campagna, si guida l’auto e si ascolta musica. Siamo in un passaggio d’epoca: la società vittoriana sta tramontando, quello che si annuncia è il mondo in cui viviamo oggi».
Tutto merito dell’ambientazione?«No, c’è anche un altro livello, che mi sta molto a cuore. Negli ultimi anni le serie televisive sono affollate da persone sgradevoli impegnate in attività sgradevolissime. Pensi a quanti serial killer passano sullo schermo, per esempio. Ma questa non è la realtà, non è che ogni giorno si trova un cadavere nel cassonetto della spazzatura, come si vede invece in tv. La vita quotidiana di ciascuno di noi riguarda tutt’altro: il desiderio di un matrimonio felice, la preoccupazione per i figli, i grattacapi economici e lavorativi. In televisione, secondo me, la brava gente non è abbastanza rappresentata».
Tranne che in «Downton Abbey»…«Anche la nostra serie ha i suoi cattivi, solo che non sono sterminatori psicopatici. Mettiamola così: come nella realtà, anche i personaggi di
Downton Abbey si trovano ad avere in mano alcune carte ed è su questa base che sono chiamati a prendere le loro decisioni. Lo fanno, di solito, al meglio delle loro possibilità, magari combattendo contro pregiudizi di cui non sono neppure consapevoli».
Quali pregiudizi?«Avrà notato che ogni tanto nella serie affiora, specie da parte degli aristocratici, un certo sentimento anticattolico. Essendo nato alla fine degli anni Quaranta, ho avuto modo di conoscere questa mentalità. Non che fossimo messi da parte, noi ragazzi cattolici. Finivamo per starcene tra di noi, questo sì. E ad alimentare il pregiudizio erano spesso ottime persone, che avevano l’unico torto di non aver mai messo in discussione le convinzioni ereditate dai genitori».
Nel suo lavoro l’elemento religioso affiora di rado.«Vero, ma mi piace pensare che ci sia, e sia ben riconoscibile, una posizione morale. Non tutti i comportamenti descritti in
Downton Abbey o nei miei romanzi hanno la mia approvazione, e questa presa di distanza è sottolineata in modo molto evidente. Mi interessa a descrivere il dissidio interiore tra ciò che vorremmo e ciò che dobbiamo fare. Lo sforzo, insomma, per diventare responsabili delle nostre azioni».
Gira voce di un suo progetto americano.«Confermo. Una volta terminata l’avventura di
Downton Abbey, è mia intenzione scrivere una serie sull’ascesa dell’aristocrazia del denaro negli Stati Uniti del tardo Ottocento. Il titolo, preso in prestito da Mark Twain, è
The Gilded Age, "l’età dorata". Gli Astor, i Vanderbildt, i Whitney hanno mutato per sempre il modo di concepire la ricchezza. Prima era qualcosa che riguardava la riservatezza e la disciplina, da allora in poi è splendore e spensieratezza. In fondo, è per colpa dei capitalisti della vecchia New York se oggi un appartamento a Manhattan è più desiderabile di una tenuta nel Kensington».