“Il sole del pensiero di Mao Zedong illumina il cammino della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”, 1966 - WikiCommons
“Rivoluzione”. Un concetto difficilissimo, quasi impossibile, da definire, senza che questo rappresenti un problema per gli storici. A questo argomento e a un racconto inedito di sette rivoluzioni famose - la guerra civile inglese, la guerra d’indipendenza americana, la rivoluzione francese e quella russa, oltre alla storia dell’unificazione di Italia e di Germania - è dedicato l’ultimo libro dello storico Donald Sassoon, Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia, appena pubblicato da Garzanti (pagine 560, euro 30,00). Da grande conoscitore del passato, l’autore ripercorre le sette rivoluzioni che ha scelto, rileggendole in chiave nuova, distruggendo miti consolidati e gettando nuova luce su date e avvenimenti.
Perché ha deciso di scrivere questo libro e dove lo colloca nella sua produzione intellettuale?
«Scrivo libri perché è un modo per leggere e studiare che è l’attività che mi piace di più. Ho sempre cercato di parlare di grandi temi, come socialismo e socialdemocrazia in Europa occidentale, per poi passare ai mercati culturali, sempre in Europa, nell’Ottocento e nel Novecento. Poi sono uscito dall’Europa con Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo. 1860-1914 e, quindi, ho pensato di continuare sulla via che avevo intrapreso anni fa, facendo un’opera meno eurocentrica, rispetto ai miei lavori precedenti. Ho voluto mettere a confronto alcune rivoluzioni, ma anche rispondere alla domanda sul perché chiamiamo rivoluzioni queste e non altre. Metto anche un punto di domanda sui diversi tentativi che sono stati fatti di definire il concetto di rivoluzione perché, come storico, sono sempre un po’ scettico nei confronti delle teorie. La Rivoluzione industriale, per esempio, o quella neolitica non sono cambiamenti di regime. Quando ci avviciniamo ai nostri giorni la parola rivoluzione viene completamente abusata e si parla di rivoluzione per qualsiasi grosso cambiamento, alcuni importanti, come la rivoluzione femminista o la rivoluzione culturale in Cina, altri meno. Un articolo del “Guardian” di qualche anno fa parlava, per esempio, della rivoluzione del Nespresso».
Perché, come lei dimostra nel suo libro, è cosi difficile definire il concetto di rivoluzione?
«Perché tutti i concetti sono difficili da definire. Proviamo a definire il concetto di riforma. Si parla di quella che è stata una grande rivoluzione della cristianità e cioè la Riforma protestante. Viene chiamata Riforma protestante. Non viene chiamata rivoluzione. La parola rivoluzione entra nel vocabolario solo nel diciassettesimo secolo quando un avvenimento che non era un granché, come rivoluzione, ovvero il cambiamento di dinastia nel 1688 in Gran Bretagna, viene chiamato The glorious revolution, “La rivoluzione gloriosa”. È altrettanto difficile, per fare un altro esempio, definire il socialismo. Stalin si dichiarava socialista e anche Turati eppure non avevano molto in comune. Per capire se erano davvero socialisti bisogna esaminare che cosa hanno fatto, avviare un’indagine storica».
Perché ha scelto, come esempi di rivoluzione, la guerra civile inglese, la guerra di indipendenza americana, la rivoluzione francese, la rivoluzione russa e quella cinese, oltre ai processi di unificazione di Italia e Germania?
«Perché questi sono i più famosi esempi di rivoluzione, quelli che sono entrati davvero nella storia, come rivoluzioni, e, come tali, sono stati accettati da tutti. Nel mio libro accenno anche ad altri avvenimenti che sono stati chiamati rivoluzioni. Per esempio Mussolini aveva parlato di una rivoluzione fascista. Anche alcuni dei seguaci di Hitler usavano il termine rivoluzione nazista. Si parla, anche, di rivoluzioni anticoloniali, come quelle che si sono verificate in Africa, alcune violente e altre non violente».
Nel capitolo finale di Rivoluzioni lei dice di ritenere molto stabile la democrazia liberale, sostenuta dal capitalismo, in diversi Paesi, tra i quali gli Stati Uniti. Non è, quindi, preoccupato per la vittoria di Donald Trump?
«Da europeo sono preoccupatissimo per la vittoria di Donald Trump perché non sappiamo che cosa succederà in politica estera. Se fossi un americano mi farebbe inquietare la promessa del neopresidente di far deportare undici milioni di immigrati. Logisticamente è impossibile espellere così tante persone, molte delle quali abitano negli Stati Uniti da anni e hanno marito o moglie o figli americani, a meno di usare molta violenza. Per non parlare dei dazi che il neopresidente vuole imporre alla Cina o all’Europa. Tuttavia non credo che il capitalismo o la democrazia liberale crolleranno a causa di Trump. Vengono messi in gioco i meccanismi di questi due sistemi economico politici ma, in fondo, questo è capitato sempre nella storia. Negli Stati Uniti ci sono frequenti elezioni. Ogni due anni un terzo del Senato deve essere rinominato. Ci sono cinquanta stati, ognuno dei quali ha un suo governatore e un suo senato. Quindi il presidente americano non ha pieni poteri e deve fare i conti con tutti questi elementi. Mi rassicura e mi fa ben sperare questo modo di funzionare del sistema americano che rende molto difficile, per un uomo solo, ottenere un controllo assoluto del potere».
Lei scrive nel suo libro: «Lo scopo finale della democrazia liberale non verrà mai raggiunto perché, nella storia, un processo continua e si evolve oppure continua e degenera oppure crolla, ma non raggiunge mai il proprio obiettivo». Può spiegarci che cosa significa questa frase?
«Se qualcosa è un processo vuol dire che non c’è un obiettivo o una meta da raggiungere. Si va avanti. Si affrontano nuovi problemi e questi problemi o vengono risolti, così da non cambiare gli aspetti fondamentali del sistema, oppure c’è un cambiamento radicale, come è capitato con il fascismo, il nazismo e il comunismo. Tutto questo si applica alla democrazia liberale. Parlavamo di democrazia liberale nel 1800, quando non votavano né le donne né i nullatenenti e poi, invece, il suffragio si è allargato e ha incluso anche I poveri e le donne. È la dimostrazione di come la democrazia liberale sia un movimento che continua sempre e si adatta a nuove situazioni».