Basta leggere un romanzo dell’Ottocento per rendersene conto: l’Italia, allora, poteva cominciare a Nizza e non finire prima delle Bocche di Cattaro. Dalla Costa Azzurra alla Dalmazia era la continuità linguistica a fare fede, pur in una mescolanza di tradizioni e consuetudini oggi difficile da rappresentare. Poi i confini sono diventati invalicabili, contraddicendo almeno in parte l’esito del Risorgimento, e il resto lo hanno fatto le guerre feroci del Secolo Breve. Dal punto di vista strettamente amministrativo, da Trieste in poi non è più Italia, d’accordo. Ma italiana, italianissima è molta della letteratura che in Dalmazia si è prodotta per secoli, dagli esordi del volgare fino a tutto il Novecento. Con il monumentale
Niccolò Tommaseo (1802-1874) a fare da punto di riferimento, ma in posizione niente affatto isolata. Ad attorniarlo ci sono infatti narratori e drammaturghi, poeti e giornalisti. Molti studiosi della lingua, moltissimi cultori dell’opera di Dante Alighieri, che non per niente diede agli italiani un idioma comune quando ancora il nostro Paese non era riconosciuto neppure come espressione geografica. È il panorama che emerge da un volume corposo e densissimo, nel quale Giorgio Baroni e Cristina Benussi raccolgono e riordinano gli atti di un convegno svoltosi a Trieste nel febbraio del 2015. L’occasione prossima era costituita dal centenario della morte di
Arturo Colautti (1851-1914), prolifico polemista, romanziere e librettista d’opera nativo di Zara, molto popolare nel passaggio di secolo e attualmente, come spesso accade, bisognoso di una riscoperta. A lui sono dedicati molti dei saggi che appaiono in questo
Letteratura dalmata italiana (Fabrizio Serra Editore, pagine 500, euro 98: per informazioni
www.libraweb.net). L’ordine dei fattori, nel caso specifico, è particolarmente importante. Prima viene la delimitazione geografica, relativa al territorio indagato, e soltanto dopo arriva la precisazione linguistica: «Quando si parla di letteratura – annota giustamente Cristina Benussi – sembra opportuno sottolineare che lo spazio non può essere concepito solo come sfondo, ma deve essere considerato come componente attivo della storia». Che su questa riva dell’Adriatico le appartenenze siano, da sempre, labili e negoziabili è del resto confermato quasi a ogni pagina del libro, ricchissimo di spunti e di sorprese. Prendiamo
Marco Polo, il mercante veneziano per antonomasia, sulla cui funzione di ponte tra Oriente e Occidente si sofferma lo studioso cinese Kim Hee Jung nella sua bella relazione. Sì, ma di dov’era veramente l’autore del
Milione? Gli abitanti di Curzola restano persuasi che fosse nato sulla loro isola e dello stesso parere è il più recente degli italiani di Dalmazia presi in considerazione nel volume, ossia il romanziere-reporter
Enzo Bettiza. In un suo elenco di personaggi illustri originari di Spalato e dintorni, Marco Polo figura a fianco di san Girolamo e degli imperatori Diocleziano e Giustiniano. Ma fra XIII e XIV secolo quella tra Venezia e la Dalmazia non era per forza un’alternativa inconciliabile, suggerisce Baroni: Marco Polo poteva essere tranquillamente nato a Cuzola e proclamarsi suddito della Serenissima per amor di brevità. Anche quando conducono una vita relativamente sedentaria, però, i dalmati non rinunciano a far professione di cosmpolitismo. Ecco così che all’inizio del Novecento un dotto bibliotecario di Fiume, l’ispanista
Piero Pillepich, intrattiene un intenso rapporto epistolare con uno dei maggiori intellettuali europei dell’epoca, Miguel e Unamuno (i relativi testi sono qui esaminati da Vicente González Martín). Molto tempo prima, nel Quattrocento, l’erede di una delle più notevoli dinastie di umanisti,
Gian Mario Filelfo, aveva consegnato agli esametri della
Raguseida un omaggio in chiave mitologica alla città dalmata (se ne occupa Pietro Frassica). Di qualche decennio successiva è l’attività poetica di
Savino Sordo de’ Bobali, la cui vicenda biografia si intreccia strettamente a quella della Repubblica di Ragusa e alla cui opera è riservato più di un intervento nel volume curato da Baroni e Benussi. Si tratta di nomi forse poco conosciuti al di fuori della cerchia degli specialisti, ma che a una lettura ravvicinata non mancano di rivelare motivi di interesse. In pieno Novecento è da segnalare, tra gli altri, il caso di
Luciano Morpurgo, scrittore ebreo di Spalato che in
Caccia all’uomo (1946) fornisce un tempestivo resoconto sulle persecuzioni naziste in Italia, cogliendo l’occasione per esprimere la propria gratitudine al «sommo Pontefice Pio XII, Eugenio Pacelli, che ci aiutò e ci difese con tutti i mezzi a sua disposizione» (si veda, a proposito, il saggio di Carlo Cetteo Cipriani). Anche se non mancano gli episodi di aperta rivendicazione politica, la prospettiva più convincente per riesaminare l’avventura della
Letteratura dalmata italiana è fornita ancora una volta da Tommaeso, lo scrittore che riassume in sé le caratteristiche del lessicografo e del poeta, del romanziere e dell’erudito. La vena enciclopedica dell’autore è giustamente messa in risalto da Valter Boggione in pagine che non servono solo a illuminare il processo di gestazione del capolavoro
Fede e bellezza. Ed è ancora la tensione all’enciclopedismo, in fondo, a rendere conto della passione con la quale molti studiosi dalmati si sono accostati alla
Commedia dantesca, a partire dal filologo
Adolfo Mussafia, la cui carriera accademica, intrapresa nella Vienna del secondo Ottocento, subì una brusca battuta d’arresto proprio a causa del presunto eccesso di “italianità” di cui lo studioso era portatore. Era una delle prime avvisaglie del «culturicidio» denunciato da Bettiza in libri come
Il fantasma di Trieste ed
Esilio. Finché c’è letteratura, però, c’è memoria. Anche questa, a pensarci bene, è una lezione di Dante, l’italiano senza patria destinata a diventare la patria di tutti, indipendentemente dalle frontiere.