mercoledì 10 gennaio 2024
Nuovo volume per l’opera omnia della pensatrice ucraina naturalizzata francese: si tratta degli scritti composti negli anni dell’esilio americano
Charles Péguy (1873-1914) in un dipinto di Jean-Pierre Laurens

Charles Péguy (1873-1914) in un dipinto di Jean-Pierre Laurens - archivio

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Singolare umanesimo [quello di Péguy, ndr] che non è andato formandosi nella calma dello studio di un erudito, ma nell’angoscia del rischio di distruzione totale: «È un’angoscia spaventosa prevedere e vedere la morte collettiva, sia che tutto un popolo sprofondi nel sangue del massacro o barcolli e si stenda nelle trincee di guerra». Preso alla lettera, e prima della lettera, questo umanesimo è una “resistenza”, un supremo raduno. Contro la moderna barbarie, Péguy mobilita insieme i profeti e il Vangelo, Omero e Sofocle, Corneille e Hugo, Cartesio e Bergson. Egli si richiama alle quattro discipline a cui riconosce di appartenere: ebraica, ellenica, cristiana e francese. Tutto il resto, per importante che sia, sceglie di ignorarlo. Sceglie di circoscrivere se stesso per scavare fino alla radice. Un’immensa preoccupazione alimenta questa comprensione. In un messaggio per l’anno nuovo, scritto esattamente quarant’anni fa, in un momento in cui già si profilava la minaccia, Péguy annovera il suo retaggio: la disciplina antica gli ha insegnato il valore eminente dello sforzo compiuto per la conservazione della città.

La disciplina ebraica gli ha rivelato il legame tra vocazione e razza, il “prezzo infinito” dell’eternità temporale. La disciplina cristiana gli rivela il prezzo “infinitamente infinito” della salvezza eterna. La Francia delle grandi imprese perse e sempre rinnovate gli dà la sicurezza di una continuità creatrice. Si premura così contro «la più pericolosa delle invasioni, l’invasione che penetra dentro, l’invasione della vita interiore, infinitamente più pericolosa per un popolo di un’invasione, di un’occupazione territoriale». Si tratta di salvarsi o di perdere tutto.

Visti in questa luce, l’umanesimo, il patriottismo e il cristianesimo di Péguy hanno una sola e unica fonte: la passione dell’autenticità nell’ora del pericolo. Come egli la concepisce, l’autenticità esiste soltanto lì dove lo spirito rinuncia al privilegio dell’immunità, dove mette a rischio la propria eternità nella prova della vita carnale, lì dove lo spirito s’incarna. «Tutto è nell’incarnazione - scrive Péguy -. Tutto è nell’inserzione, e l’inserzione è estremamente rara. Di Dio c’è stata una sola incarnazione, e anche delle idee ci sono state ben poche incorporazioni. Quando un’idea, invece di tenerla per aria, viene improvvisamente presa sul serio, c’è e si fa una rivoluzione». In questo senso, l’Incarnazione non è altro che la forma esemplare di tale rivoluzione, l’ora culminante dell’autenticità: «Gesù ha preso l’incarnazione nella sua esattezza e nella sua pienezza. E soprattutto ha rivestito la riserva e il limite propri dell’uomo». Il Dio dell’onnipotenza è diventato sulla croce il Dio dell’onni-impotenza.

Ma già il Dio della Bibbia, che incide la sua legge nel cuore di un popolo e fa germogliare la salvezza «come la terra fa sbocciare il seme», inaugura una simile rivoluzione. Sul piano puramente umano, già Edipo, «il più grande personaggio» del mondo antico, compie anche lui un’operazione analoga. «Perché essendo partito dal culmine, che è l’essere re di Tebe, egli ha effettuato la più grande ascensione spirituale, che è quella di essere disceso, attraverso il più aspro degli itinerari, di essere diventato il più mendicante, il più miserabile, il più errante dei ciechi». Così, per Péguy, il tipo di ogni ascensione spirituale, di cui l’Incarnazione rappresenta la perfezione, è quello di una discesa dello spirito nel mondo della necessità.

Lo spirito muore per rifiutarsi alla morte. Gli dèi greci «mancano [per la loro mancanza]. Essi mancano di questo coronamento che è alla fine della morte. E di quella consacrazione che è il rischio». Sotto la superficie e le apparenze della religione olimpica, Péguy scopre la reale e profonda religione antica che egli nomina la religione della supplica. Siamo felici di ritrovare in questo volume quelle pagine sui Suppliants che sono tra le più belle di Péguy. Dell’essere più spoglio, più denudato, materia malleabile nelle mani della sventura, Omero e Sofocle fanno il supremo rappresentante della realtà. Edipo, quando non è ancora che il felice e virtuoso re di Tebe, Priamo, quando regna su Ilio, rappresentano soltanto se stessi.

Ma Edipo errante, mendico, mentre sta espiando la colpa involontaria, ma Priamo prostrato ai piedi dell’assassino di suo figlio, da dèi che erano, sono diventati uomini. Sono stati ricollocati «nella precarietà, nella transitorietà, in quella nudità che costituisce proprio la condizione dell’uomo». La stessa felicità, dalla cui altezza sono precipitati nello sgomento, è agli occhi dei Greci «il segno più infallibile del fatto che fossero marcati dalla fatalità». Onde, il supplice non è più soltanto se stesso. «Non è nemmeno più se stesso. Non si tratta più di lui. Ed è a partire da quel momento che diventa temibile. Egli rappresenta». Egli domina il supplicato, «che può parlare soltanto in nome della propria felicità, tutt’al più della felicità in generale». Ecco il punto in cui l’umanesimo di Péguy si articola al suo cristianesimo. La stessa affinità, lo stesso profondo legame tra l’autenticità e la spoliazione che egli discerne in Omero, li scorge nella Bibbia e nel Vangelo.

«Quando un certo smarrimento appare nella storia del mondo, è che la cristianità ritorna». È sempre all’estremo della sventura che Israele si spiega con Dio e che Priamo, ai piedi del vincitore, diventa il re della supplica. Péguy rifà così la sintesi giudeo-greca non a livello dell’alessandrinismo, ma all’altezza della poesia omerica e della poesia profetica. Invece di ripercorrere la vecchia strada della scolastica fino ad Aristotele, o il cammino della mistica fino al neoplatonismo, egli risale alle fonti più antiche. È lì che scopre un modo di considerare, d’interrogare l’esistenza, una certa vocazione al vero che raggiunge la sua esperienza cristiana e francese. «La cristianità» scrive «aveva poco a poco esteso al temporale la parola: “Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato”.

(Estratto da La sfida della libertà. Opere Vol. II. Gli anni americani (1943-1949) di Rachel Bespaloff, a cura di Claude Cazalé Bérard, Cristina Guarnieri e Laura Sanò, traduzione di Claude Cazalé Bérard, Castelvecchi editore © 2024 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione)

Rachel Bespaloff in cerca dell’integrità dell’umano

«Forse questa alienazione, questa autopunizione, questo esilio - liberamente, lo ammetto, liberamente scelto - sono una forma di prova senza cui questi esseri non avrebbero raggiunto la chiaroveggenza che ci illumina su noi stessi come mai farebbe il filosofo». Nella serrata polemica condotta contro Sartre, Rachel Bespaloff allude a Baudelaire, Kafka e Kierkegaard. Ma in filigrana forse allude al suo esilio, quello che la conduce negli Stati Uniti, nel giugno del 1942, per mettere in salvo la figlia Miette e fuggire dalla Francia sotto occupazione tedesca.

Rachel Bespaloff (1895-1949)

Rachel Bespaloff (1895-1949) - Castelvecchi

A proposito di Che cos’è la letteratura? di Jean-Paul Sartre, da cui è tratta la citazione, insieme a tutti gli scritti redatti negli anni americani, tra il 1943 e il 1949, compare ora in La sfida della libertà (pagine 394, euro 35,00), il secondo volume delle opere complete di Rachel Bespaloff (1895-1949), che esce in libreria domani con la curatela di Claude Cazalé Bérard, Cristina Guarnieri e Laura Sanò. Prosegue così, puntuale, la benemerita operazione condotta dall’editore Castelvecchi, che primo al mondo, e grazie all’abnegazione di Cristina Guarnieri, raccoglie in quattro volumi gli scritti della filosofa ucraina naturalizzata francese. Dopo il primo, uscito esattamente un anno fa, che contiene le fatiche degli anni francesi, e questo, si attendono il terzo e il quarto, dedicati rispettivamente agli epistolari e agli abbozzi e frammenti lasciati incompiuti. Bespaloff, risvegliata al pensiero dall’incontro con Lev Šestov, nella sua ricerca filosofica ha provato a sottrarsi alla fuga disperata del tempo cercando l’istante, quell’istante perfetto, che si dà in molti modi ma che si presenta come «atto di presenza dell’uomo tutto intero».

Un’integrità che forse le è mancata negli anni dell’esilio, anche per la lontananza dalla Francia. «Non saprei dirle di che cosa è fatto il mio attaccamento alle cose di qui - scriveva, nel 1939, a Jean Wahl -, ma sento chiaramente di non essere spostabile. Animale da guscio… Tanto peggio per il guscio, e tanto peggio per l’animale». Eppure, Oltreoceano, Bespaloff non rimase abbandonata a se stessa. Appena sbarcata a New York ad accoglierla c’è Jacques Maritain, che le offre di lavorare presso l’Office of War Information, alla sezione francese della Voix de l’Amérique. Successivamente, grazie all’intervento di Wahl, insegnerà Letteratura e civiltà francese al Mount Holyoke College dell’Università del Massachusetts. Se la sussistenza è assicurata, a tormentarla arriva la lontananza dalla Francia, luogo fisico ma soprattutto spirituale. Anche lei, come Antoine de Saint-Exupéry, quando l’abbandona non pensa di emigrare ma di essere «in cammino verso la Francia, la Francia di sempre e la nuova Francia che si è rivelata nel sacrificio accettato e nella partecipazione alla prova».

«L’amore vero della patria - continua nel saggio dedicato all’autore di Il piccolo principe - è fatto di legami, amicizie, fedeltà mutevole agli esseri e alle cose. Non è un culto dell’orgoglio ma una fede rivelata nella semplicità, di un autentico attaccamento». Ma questa Francia spirituale che avrebbe dovuto fungere da frangiflutti contro la barbarie in America non la trova. La cultura in cui si imbatte le concede la sopravvivenza, forse, ma non le offre quello che cerca. «L’ostacolo qui, in questo grande e, per molti rispetti, mirabile paese, è il superficiale - confessa in una lettera a Daniel Halévy -. È ovunque, come una muraglia liquida. Le si dà un calcio forte e si immagina di averla trafitta. Errore, illusione, la muraglia si riforma».

Esilio equivale, per Bespaloff, a salvaguardare, al tempo dei totalitarismi, ciò che la Francia rappresenta nella sua geografia dello spirito. Difenderla come faro di libertà e civiltà comporta continuare da altrove la resistenza all’“asfissia del possibile”. Compito a cui non si è sottratta malgrado la sofferenza per la lontananza, persuasa, come scrive nel saggio L’umanesimo di Péguy, di cui riproduciamo un estratto, che «vi sia onore soltanto laddove il coraggio fisico rende irrevocabile un impegno dello spirituale nel mondo della forza».

Simone Paliaga



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