martedì 5 aprile 2011
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Nel 1914, data dell’ultimo censimento dell’impero ottomano, i cristiani nella regione del Medio Oriente e nell’attuale Turchia rappresentavano il 20% della popolazione, arrivando a punte del 30% nell’area siro-libanese. Nel 1542, data del primo censimento dell’impero, i cristiani rappresentavano solo l’8% della popolazione dei medesimi territori – che 8 secoli prima, al momento dell’espansione dell’islam, erano pressoché interamente abitati da cristiani. Da questi dati si possono trarre due significative conclusioni: la prima è che la fase iniziale dell’espansione musulmana con l’applicazione dell’ordine giuridico islamico aveva portato progressivamente alla drastica diminuzione del numero dei cristiani, ridotti a una posizione di netta subalternità giuridica e sociale, espressa con la categoria di dhimmi («protetti»); la seconda è che durante l’impero ottomano le medesime comunità cristiane, pur mantenendo uno statuto subalterno, avevano conosciuto una fiorente ripresa. Il fatto che l’impero ottomano avesse istituzionalizzato le comunità religiose (millet) riconoscendo loro prerogative sul piano pubblico, unito all’intraprendenza culturale, commerciale e imprenditoriale dei cristiani, che avevano saputo svolgere un ruolo creativo nei rapporti con l’Europa, aveva contribuito in maniera determinante alla loro rinnovata fioritura. La successiva dissoluzione dell’impero ottomano e la creazione dei nuovi Stati nazionali dettero vita a un contesto socio-politico e culturale che di fatto si è rivelato meno propizio ai cristiani nel corso del XX secolo: la loro percentuale sul totale della popolazione della regione era scesa al 6% nel 2000, ed è ulteriormente diminuita oggi. Il passaggio dall’«impero» allo Stato nazionale «turco» fu per i cristiani distruttivo: appartenendo a etnie diverse da quella turca o dalle altre etnie musulmane, essi furono identificati come «estranei» pericolosi rispetto alla nuova identità nazionale; il genocidio degli Armeni nel 1914-15 e l’espulsione in Grecia dei cittadini turchi di fede greco-ortodossa nel 1923, furono iniziative politiche che hanno annientato la presenza cristiana, cancellando secoli di storia. Nei nuovi Stati nazionali arabi la situazione si è presentata più favorevole, perché la comune identità araba, enfatizzata dalle élites riformatrici sia musulmane sia cristiane aveva creato una reale coesione, permettendo iniziative politiche condivise per creare Stati nazionali di tipo democratico-liberale, in cui fosse affermata la cittadinanza comune, indipendentemente dall’appartenenza religiosa dei singoli. Questo processo di modernizzazione politica è stato però corroso da molteplici fattori: la reazione dei movimenti musulmani fondamentalisti – nati proprio per ostacolare tale processo e proporre invece in modo rinnovato la questione dello «Stato islamico» retto dalla shari’a –, l’evoluzione autoritaria di diversi governi, la persistente conflittualità nella regione, recentemente acuita dal disastro avvenuto in Iraq. La risposta dei cristiani è stata spesso l’emigrazione dal Medio Oriente. Se è vero che molti degli eventi sopra elencati colpiscono anche la popolazione musulmana, è anche vero che i cristiani presentano una maggiore vulnerabilità, che è legata alla visione confessionale con cui la cultura musulmana maggioritaria tende a organizzare la società. Nei Paesi a maggioranza musulmana si è per lo più di fronte a una cittadinanza «imperfetta»: ovvero una cittadinanza che, per quanto formalmente riconosciuta oggi in modo paritario a tutti i cittadini, continua però a essere inficiata dall’appartenenza religiosa: direttamente, se esistono leggi che di fatto stabiliscono una diseguaglianza nel trattamento tra cristiani e musulmani su temi specifici o che non consentono di «pensare» il cittadino in modo indipendente dalla sua appartenenza religiosa; indirettamente, quando la prassi sociale discrimina i cristiani in assenza di politiche miranti a cambiare tale situazione. Di fronte a questa panoramica occorre notare un fattore importante: se fino agli anni 1920 i cristiani si comprendevano come «minoranza» e su tale base richiedevano specifica tutela giuridica, in epoca successiva e in modo crescente negli ultimi decenni, il punto di forza delle loro rivendicazioni è la cittadinanza egualitaria: essi chiedono di essere riconosciuti come cittadini e non dhimmi («protetti» dall’islam). Di qui i timori persistenti tra i cristiani di fronte ai crescenti processi di re-islamizzazione culturale, sociale e talora politica in atto negli ultimi decenni nei Paesi del Medio Oriente: i sostenitori dell’islam politico, che rappresentano in alcuni Paesi, come l’Egitto, una  componente importante, sapranno sostenere la cittadinanza nazionale egualitaria indipendentemente dall’appartenenza religiosa? In assenza di una chiara evoluzione in questo senso, la situazione delle comunità cristiane rimarrà precaria e l’alternativa più allettante resterà l’emigrazione. In questa prospettiva anche gli attuali rivolgimenti politici in atto in Medio Oriente sono per ora tutt’altro che chiarificatori rispetto al futuro dei cristiani nell’area.
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