Il biglietto da visita glielo confezionò niente di meno che Orson Welles. «Credo che Clint Eastwood sia oggi il regista più sottovalutato del pianeta». Mica male portare in dote un elogio del genere da un genio del cinema. Tra l’altro in tempi non sospetti. Il vecchio Clint aveva quarant’anni, e una carriera da stereotipo. Faccia ingrugnita, sigaro che si muoveva di qua e di là nella smorfia dei denti, poncho e una strada polverosa. Oppure: abito grigio, capelli cotonati, sempre col broncio, Magnum facile, una metropoli e modi spicci. Lo straniero e l’ispettore Callaghan. Due facce dello stesso mito. Quattro film da regista, di cui uno,
Lo straniero senza nome, un esercizio di stile sul personaggio che lo lanciò nella famosa trilogia del dollaro. Ma l’ingombrante Welles aveva già capito tutto, e in quella storica frase disse ancora «essendo una star e un simbolo alla John Wayne non lo prendono sul serio dietro alla macchina da presa, così come accade per le belle ragazze marchiate come incapaci di recitare per la loro avvenenza. Dopo aver visto per la quarta volta
Il texano dagli occhi di ghiaccio sono sicuro che appartenga alla categoria dei grandi western, la stessa di Ford e di Hawks. E io, Orson Welles, mi tolgo il cappello». Il cappello, appunto. Si diceva di Eastwood, con un aforisma bruciante: «Ha solo due espressioni. Con il cappello e senza il cappello». Il riferimento era al cowboy immortalato dagli zoom di Sergio Leone. Ora, passati trent’anni, la profezia di Welles è compiuta. All’alba dei suoi ottanta Clint Eastwood è uno dei più grandi, se non il più grande regista vivente. Nella storia sarà ricordato più dietro alla macchina da presa che davanti. Ormai Clint Eastwood è una leggenda, e dal Texano cui prestò i suoi occhi «di ghiaccio», sono passati più di trent’anni e 27 film. Negli ultimi venti anni bellissimi, negli ultimi dieci molti capolavori. Con qualche gemma preziosa anche negli anni precedenti. Tutti comunque segnati da una capacità visiva e narrativa unica. Eastwood ha osservato e rubato l’arte ai suoi maestri, Leone e Don Siegel su tutti. Seguendo ancora la bussola di Welles: i suoi film hanno la misura epica dei classici, come un Ford o un Hawks, appunto, e per questo sono modernissimi. Senza tempo: inquadrature secche, forma asciutta e rigore. Ma con dentro una tale densità di storie e vissuti e personaggi e pensiero da lasciare molto spesso senza fiato.Più è invecchiato più Eastwood è entrato nel cuore del cinema. Senza un genere prediletto, che non sia la vita. E l’America con le sue contraddizioni, le sue miserie e il suo eroismo, fatti di gloria e di fallimenti. Il suo sguardo è morale, ogni film, ogni storia è una discesa verso gli archetipi della Grande Storia Americana. Il mito della frontiera in frantumi (
Gli Spietati, primo Oscar, nel 1990), la fuga folle dal Sogno consumistico (
Un mondo perfetto), la verità fatta a pezzi per la Ragion di Stato (il dittico
Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima), la vendetta (in tanti film, ma su tutti
Mystic River), la voglia di lottare, la malattia e il fine vita (
The Million Dollar Baby, altri due Oscar personali), la guerra che è in casa prima di essere esportata, con tutti i suoi risvolti interraziali nel melting pot Usa (
Gran Torino). Poi c’è l’amore per la musica, che lo ha portato a comporre molte colonne sonore dei propri film, anche assieme al figlio Kyle: il jazz, la sua grande passione, espressa nella regia dello straziante
Bird del 1988, sulla vita di Charlie Parker. Lo sport: dal pugilato che diventa sfida esistenziale al rugby trasformato in missione politica. «Umana», dirà Nelson Mandela/Morgan Freeman in I
nvictus. Aggettivo che dice tutto dell’autore: l’ultimo umanista che racconta senza giudicare, ma non rinunciando mai al proprio spessore. È già al lavoro dopo aver completato
Hereafter, thriller soprannaturale in uscita tra qualche mese. Ottant’anni domani, e ancora la voglia di sperimentare, passare da un genere a un altro, sempre a suo agio, come se stesse aggiustando un tubo da un perdita, anziché girando l’ennesimo capolavoro. Dopotutto è stato lui a dire «fare film è un arte, ma anche l’idraulica lo è». A ciascuno la sua parte nel mondo.