L'arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia, ricevuto da papa Francesco lo scorso 16 febbraio - Siciliani
Il primo a essere sorpreso, il 4 novembre scorso, fu proprio lui, monsignor Domenico Battaglia, per tutti don Mimmo, arcivescovo di Napoli dal 12 dicembre 2020 (quando papa Francesco lo nominò alla cattedra della Chiesa partenopea della quale avrebbe preso possesso il 2 febbraio 2021). In quelle poche righe diffuse da Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, c’era la sua nomina a cardinale nel concistoro del prossimo 7 dicembre. Un concistoro annunciato dal Papa il 6 ottobre con ventuno nuove porpore, poi scese a venti per effetto della rinuncia da parte del vescovo indonesiano di Bogor, monsignor Paskalis Bruno Syukur, il 22 ottobre. Con monsignor Battaglia, dunque, si torna a ventuno. Ma non è una questione di numeri. L’arcivescovo di Napoli è uno abituato alla sostanza delle cose. E lo si vide anche quel giorno dalle sue prime dichiarazioni dopo l’annuncio. Dichiarazioni che confermavano il suo stupore: «La nomina con cui papa Francesco mi ha inserito quest’oggi nel Collegio Cardinalizio mi ha colto di sorpresa, generando in me una duplice reazione. Da un lato sento il peso di questa responsabilità con cui il Papa mi invita ad allargare il cuore, per aiutarlo nel suo ministero e ospitarvi la sua premura per la Chiesa universale e per il mondo intero. Dall’altro avverto una sincera gratitudine verso papa Francesco non tanto per l’attenzione che rivolge alla mia persona ma perché nel chiamarmi a questo servizio ha guardato ad un figlio del Sud, vescovo di una Chiesa del Sud, di questo Sud che è al contempo terra di fatica e di speranza». Quindi aggiungeva: «Diventare cardinale non è un privilegio ma una responsabilità, responsabilità che possiamo condividere nella misura in cui cammineremo insieme, sentendoci servi gli uni degli altri. E non chiamatemi Eminenza come qualcuno già ha fatto, sono e resterò sempre don Mimmo».
Sono gli stessi sentimenti che emergono da questa intervista ad Avvenire, la prima del cardinale nominato, dopo l’annuncio del Papa.
Che cosa aggiunge la porpora al ministero dell’arcivescovo di Napoli?
La porpora non è un’onorificenza, ma un segno di servizio e di responsabilità maggiore. Il suo colore come è noto richiama il sangue dei martiri, cioè il dono totale di sé per Cristo e per il suo popolo, a cui tutti siamo chiamati. Come ha detto papa Francesco, il cardinale è chiamato a vivere il proprio ministero «non con il pensiero di un principe, ma con il cuore di un servo». Per me, ciò che aggiunge al mio servizio, non è altro che il dovere di essere ancora più vicino a questa Chiesa partenopea, senza dimenticare di allargare il cuore alla Chiesa universale, alle sue ferite e alle sue speranze, condividendo la vita e le sofferenze della nostra gente, dei popoli, soprattutto dei più poveri. Una figura importante per la mia vocazione, dom Helder Camara, affermava che «quando sogniamo da soli, è solo un sogno. Quando sogniamo insieme, è l’inizio della realtà». Ecco, questa chiamata mi ricorda che devo impegnarmi ancor di più a sognare con la Chiesa intera, camminando insieme ai miei fratelli vescovi, sotto la guida del Papa, annunciando la Buona Notizia della Pasqua, servendo con maggiore dedizione gli ultimi, i piccoli, coloro che il mondo scarta ma che sono il cuore pulsante del Vangelo e la vera ricchezza della Chiesa. Insomma è una chiamata a sporcarmi ancor di più le mani e il cuore con la vita del popolo, della gente, sollevando le croci di chi soffre, senza mai dimenticare di essere “cirenei della gioia”, come spesso scriveva don Tonino Bello.
E a proposito di ultimi, di scartati, di sofferenti, oggi qual è l’emergenza più grande di Napoli?
Napoli vive tante emergenze, ma forse quella più grande è il rischio dell’indifferenza e della assuefazione. Le disuguaglianze sociali, la povertà educativa, la criminalità sono ferite profonde, ma il vero pericolo è che ci si abitui a tutto questo, che si smetta di indignarsi, di sognare un futuro diverso. Per questo la nostra Chiesa ha avviato due percorsi importanti, attraverso la creazione di un Ramo Ets (Ente del Terzo Settore, ndr) che renderà più agevole la progettazione sociale, caritativa, mettendo sempre più al centro i poveri, e di una Fondazione di partecipazione che ha lo scopo di donare speranza ai giovani attraverso il riscatto lavorativo possibile grazie alla valorizzazione dei beni culturali ecclesiali. La città ha bisogno di risvegliare una speranza concreta, di ricostruire fiducia, soprattutto nei quartieri più abbandonati. Noi come Chiesa ci stiamo provando.
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In particolare, c’è una emergenza giovani, visti i casi di cronaca?
Sì, c’è una grande emergenza educativa. I giovani a Napoli vivono tra due estremi: da un lato il talento straordinario, l’energia creativa, dall’altro il rischio di essere inghiottiti da un sistema che non dà opportunità. Quando le famiglie sono fragili e le scuole non riescono a farsi presidio di speranza perché sovraccaricate e non di rado sole, i ragazzi finiscono per cercare altrove risposte che spesso li conducono su strade sbagliate. Come Chiesa, dobbiamo moltiplicare gli spazi di incontro, di ascolto, di formazione, perché nessun bambino e nessun giovane si senta abbandonato. Per questo ho lanciato il Patto Educativo: per ridonare all’educazione la sua centralità e provare a dare risposte concrete a questa emergenza invitando tutti a camminare insieme e lavorare in un unico “noi” per il bene dei più piccoli.
Come descriverebbe il volto della città partenopea oggi?
Il volto di Napoli è un mosaico di contrasti: luce e ombra, ferite e bellezza, sofferenza e resistenza. È una città con una capacità unica di reagire, di rialzarsi, di trasformare il dolore in creatività. È una città che non smette di stupire, ma che ha bisogno di riscoprire una coesione più forte, di far incontrare le sue diverse anime, che spesso sono culture simili ma lontane. Ecco l’incontro delle tante città che a Napoli vivono e convivono è fondamentale perché nessuno resti ai margini. Troppe volte nel giro di qualche metro si incontra un bambino in povertà educativa e un altro magari con possibilità illimitate: ecco questi bambini devono incontrarsi, le loro famiglie devono parlarsi, i quartieri devono diventare crocevia di contaminazioni reciproche capaci di donare possibilità di cambiamento e crescita a chi rischia di restare indietro. Solo così si sconfigge il sistema di morte della camorra, che non di rado affonda le proprie radici sul disagio degli ultimi e sull’indifferenza – se non a volte complicità – dei primi.
Il turismo, ultimamente molto cresciuto a Napoli, è un luccichio che distrae dai problemi reali?
Il turismo è una grande opportunità, ma non può diventare l’unica narrazione della città. Napoli non può essere solo una cartolina da visitare; deve essere una casa per chi ci vive. Il rischio è che il luccichio del turismo offuschi i problemi reali: le periferie, anche quelle del centro, la disoccupazione, l’emigrazione dei giovani. Come Chiesa, dobbiamo ricordare che l’ospitalità turistica non basta se non è accompagnata da una giustizia sociale più profonda.
Che cosa può dare speranza a Napoli nel Giubileo della speranza che ci apprestiamo a vivere?
Il Giubileo, nella sua radice biblica, è un tempo di grazia, un tempo di liberazione e di restituzione. Nel Levitico, il Giubileo è l’annuncio della libertà per gli oppressi, la restituzione della terra a chi l’aveva perduta, il riscatto per chi era schiavo del debito. È il richiamo a ripartire, rimettendo al centro la giustizia e la dignità di ogni persona. Per Napoli è un’occasione per riscoprire la forza di questa visione biblica: una città che impara a liberarsi dalle sue schiavitù, dalle catene della corruzione, della violenza, della disuguaglianza, per ridare a ogni persona, soprattutto ai più fragili, il posto che le spetta. È un invito a rimettere il Signore al centro della vita personale e comunitaria, lasciandosi trasformare dal suo Vangelo di misericordia e di riconciliazione. Il Giubileo ci ricorda che il cambiamento è possibile, ma passa attraverso la conversione del cuore e l’impegno concreto.
Quindi lei è fiducioso per un futuro diverso della città.
Napoli ha tutte le risorse per rinascere, se pone al centro la dignità di ogni persona e se si lascia illuminare dalla luce del Vangelo. Questa è la vera speranza che può trasformare la città: non un sentimento vago, ma una forza che spinge all’azione, che restituisce futuro a chi si sente abbandonato e apre strade di liberazione per tutti.