sabato 5 marzo 2011
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L’unificazione italiana impone alle élite degli Stati preunitari una serie di gigantesche sfide, di cui la più difficile da vincere è proprio quella «culturale». Prima ancora che le minoranze economico-industriali e finanziarie – a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento – comincino a diventare, nel Nord dell’Italia soprattutto, le élite prevalenti in quanto protagoniste creative e rappresentative della rapida modernizzazione di vaste aree del Paese, la realizzazione dello Stato unitario modifica radicalmente e irreversibilmente lo «spazio», territoriale e politico-istituzionale, che aveva storicamente costituito l’ambiente di tutte le élite preunitarie. In un tale ambiente, ciascuna di queste ultime riteneva fissa (e forse adeguatamente protetta, almeno per un periodo non breve di tempo) la propria collocazione ai vertici delle rispettive gerarchie sociali, storicamente costruite, legittimate e articolate secondo le proprietà ereditate, i latifondi e i grandi traffici mercantili, o consolidatesi non da molto con l’esercizio delle professioni alto-borghesi e intellettuali. Le tante e spesso minuscole «parti», da cui sono pressoché sempre state composte nel loro succedersi le più stabili conformazioni sociali del popolo italiano, hanno prodotto nel corso dei secoli altrettanto numerose, e spesso assai piccole, minoranze direttive o élite. Ciò che però non può non cambiare, con il costituirsi dello Stato-nazione, è proprio il rapporto delle tante e differenti élite non già (o non soltanto) tra di loro, bensì e soprattutto con la «classe eletta di governo», ossia con la «nuova» élite politica, detentrice del monopolio delle più rilevanti decisioni politiche, oltre che della «rappresentanza/rappresentazione» dell’intero Paese. Ed è costretto a dover cambiare, questo rapporto, proprio per effetto della radicale trasformazione – territoriale e politico-istituzionale, appunto – dello «spazio» in cui erano cresciute e si erano ambientate le élite pre-unitarie. Gli antichi «centri», con la loro città-capitale, rischiano di diventare «periferie». E la contiguità delle tradizionali élite (una contiguità anche e soprattutto fisica) al potere politico, si rovescia in una «distanza» che non può essere colmata o accorciata senza un sovrappiù di impegno e di azione genuinamente politica da parte delle élite. Sta qui la difficile sfida «culturale». In modo non troppo dissimile dallo sforzo a cui sono oggi chiamate le élite nazionali che intendano restare élite nello «spazio» dell’Europa dentro il sistema globale, alle classi dirigenti degli Stati preunitari – per poter continuare a essere tali nella nuova realtà che si andava imponendo – occorreva dotarsi di una nuova «visione». Nuova, poiché comportava una riconsiderazione di sé e del proprio ruolo nel presente e nella preparazione dell’incombente futuro. Nuova, poi e in particolare, poiché una tale visione si sarebbe dovuta allargare sino a ridisegnare il proprio rapporto non solo con le creative élite che già si profilavano nel campo industriale, ma anche e soprattutto con la classe politica collocata al «centro» delle istituzioni statali e nella posizione di comando dell’intero processo di graduale realizzazione dello Stato-nazione. Si potrebbe ancora oggi ripetere, con ricchezza di argomenti e prove storiche, che all’Italia sono mancate in questi centocinquant’anni, e continuano a mancare, élite autenticamente nazionali. Vale a dire, élite che – pur magari afferrando a proprio vantaggio ciò che dagli eventi viene dischiuso all’apparenza come rischio o azzardo, ma che sotto la scorza si presenta come positiva e irripetibile opportunità – si fanno portatrici di un interesse nazionale e responsabilmente lo perseguono, nella consapevolezza che esso, allungandosi di necessità su un tempo lontano, può richiedere il parziale sacrificio dei propri interessi frazionali e più immediati. La constatazione che al nostro paese fanno quasi «naturalmente» difetto le élite, e che – anche quando esse esistano, più o meno facilmente visibili e riconoscibili – restano immature e incapaci di svolgere il ruolo di classe dirigente, accompagna con sin eccessiva frequenza tutta la storia unitaria italiana. Sottovalutare una simile registrazione sarebbe però un grave errore. Così, ogni discorso sulle élite in Italia e sul loro effettivo ruolo tra politica e società continua a essere il racconto, se non di una «assenza», di una possibilità che, sempre auspicata o sognata, è rimasta inafferrabile o incompiuta. Con ogni probabilità, tuttavia, ben più del persistente lamento sull’assenza di élite e sulla latitanza di una vera classe dirigente conta – oggi soprattutto – apprestarsi finalmente a formare le une e preparare l’avvento dell’altra. È questo infatti il solo modo «per superare la presente crisi». Che è tanto più minacciosa, quanto più fa emergere in modo simultaneo il progressivo avvitamento di ogni sistema di partito e l’insufficiente adempimento delle promesse della democrazia dei «moderni».
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