Gioele Dix - Agenzia C.A.T.
Nella tela di Dino Buzzati è caduto da bambino e da allora non ne è più uscito. L’autore del Deserto dei Tartari lo stregava e lui si addentrava sempre più nel suo mondo fatto di incantesimi, richiami affascinanti e paurosi, arcani messaggeri di un Altrove. «A 13 anni, complice un amico poco più grande, ho scoperto i Sessanta racconti e sono rimasto folgorato – spiega Gioele Dix –. Le vicende e i personaggi che narrava erano riconoscibili, facevano parte del mondo reale, ma dall’altro lato c’era sempre qualcosa di sospeso e surreale: il mio non era ancora un pensiero elaborato, ma subito ho trovato la sintonia con questo signore». Una simbiosi intima che decenni dopo ha dato origine a La corsa dietro il vento – Dino Buzzati o l’incanto del mondo, spettacolo teatrale di Gioele Dix, che firma la drammaturgia e la regia, e che insieme a Valentina Cardinali porta sul palcoscenico i personaggi di alcuni racconti di Buzzati (oggi e domani alla Sala Umberto di Roma, poi in tour per tutta Italia fino al 28 aprile a Varese, e dal prossimo autunno di nuovo al Franco Parenti di Milano).
È come un lavoro a quattro mani, le sue e quelle di Buzzati: nei racconti, rielaborati per diventare testi teatrali, il messaggio originale non solo non è tradito, ma passa con maggiore immediatezza.
Non dovrei dirmelo da solo, ma questo spettacolo è venuto così bene perché sguazzavo con familiarità nella materia fin da bambino, l’avevo dentro, e poi perché ho scommesso sul cavallo giusto: già nelle prime righe c’è tutta quella densità folgorante per cui il pubblico entra in un attimo nelle storie e si identifica. Faccio partire lo spettacolo da Una pallottola di carta, magnifico racconto in cui il protagonista raccoglie un foglio gettato dalla finestra di un grande scrittore, ma decide di non leggerlo e lo chiude per sempre in un cassetto per non rischiare di restare deluso dal contenuto. Io utilizzo questa trama come spunto iniziale, per fare subito un rovesciamento: sono sotto casa di Buzzati a Milano, raccolgo la pallottola di carta sotto le sue finestre, ma diversamente dal personaggio la apro e dentro trovo le sue brutte copie. Parto da lì per rimettere insieme i pezzi e percorrere gli altri racconti, da La giacca stregata a Una lettera d’amore, poi Ragazza che precipita, La canzone di guerra, Quiz all’ergastolo e altri ancora. Cambiato il finale, diventa insomma il contenitore, l’espediente per l’intero spettacolo.
Gioele Dix - Agenzia C.A.T.
Come è avvenuto il passaggio dal testo narrativo di Buzzati, così rapido, ironico e sconcertante, al linguaggio teatrale?
È stato un percorso naturale, Buzzati stesso si offre facilmente a questo, sia per il suo stile di scrittura, che è già teatrale, sia per il pensiero che c’era dietro. Diceva sempre che lui era lo scrittore ma che poi sarebbe toccato al lettore reinterpretare le sue pagine, che non sarebbero più state cosa sua. Io e Valentina Cardinali interpretiamo due attori che si trovano in un laboratorio di parole, a metà tra tipografia e magazzino della memoria, e mettiamo in scena i racconti attingendo liberamente alle atmosfere buzzatiane, alle sue inquietudini, agli incubi, ma anche alla sua sferzante ironia, al gusto del paradosso e alla irrefrenabile comicità di certe situazioni. Entriamo e usciamo dalla narrazione, a tratti commentiamo e il pubblico si diverte e si commuove tra continui colpi di scena: grazie a Buzzati lo spettacolo vive di diverse temperature, cambia continuamente registro, prima ti fa ridere, poi ti gela, poi ti lascia senza fiato. Ad esempio durante Ragazza che precipita sento il pubblico in sala trascinato dalla discesa lunghissima di questa giovane donna che vola vola e intanto invecchia.
È il suo classico tema del tempo che passa inesorabile e tra le sue ruote macina la vita…
In La corsa dietro il vento, che dà il titolo allo spettacolo, Buzzati mette in fila tante microstorie tutte interrotte a metà, che compongono un mosaico in cui tutti i personaggi sono presi dalle loro piccole vanità e ne fanno delle cose “importanti”. Finché non passa la Grande mietitrice, sempre protagonista in Buzzati, che qui arriva con il volto della tecnologia anni ’50 del “nuovissimo e potentissimo ufficio dell’anagrafe”, che in pochi secondi ti emette l’elenco dei vivi e dei morti per quella precisa data. Curiosamente i morti sono tutti i personaggi incontrati prima, accomunati dall’essere deceduti nello stesso giorno. Il finale è drastico, è una pietra, è il Qoelet, “vanità delle vanità, tutto è vanità, è un pascersi di vento”, appunto la corsa dietro il vento, ma durante la rappresentazione dei singoli casi si ride molto: recitiamo la parte della signora bene che vieta alla figlia di andare al ballo di beneficenza perché l’ambiente è misto e ci va anche la figlia della droghiera. O l’avvocato scontento dell’abito sartoriale che gli fa la gobba (ma la gobba in realtà ce l’ha lui). O ancora il professore che fa l’umile ma vuole che il suo nome sia scritto più in grande rispetto agli altri… Testi che per noi sono pane, teatro già scritto e materia comica geniale.
Di grande impatto è anche La Canzone di guerra, con schiere di soldati vittoriosi, eppure chissà perché tristi nel cantare struggenti canzoni cariche di una nostalgia nota solo a loro, non a chi li comanda…
È tra i testi teatralmente più sorprendenti. Nel racconto di Buzzati la canzone non c’è, ovviamente, noi in teatro l’abbiamo fatta comporre dal musicista Savino Cesario, “una croce ci sta” cantano i soldati, e il re non se ne fa una ragione. Imprevedibilmente è diventato un pezzo tragico e comico: mentre sua maestà non comprende le parole il pubblico ride, salvo poi in pochi secondi precipitare nella paura quando alla fine da tutte queste vittorie esce una foresta di croci. Oggi con una guerra in corso in Europa il pubblico resta scosso: questo fa la grande letteratura, dà una potenza di fuoco. Come mi spiegò Luca Ronconi, mettere in scena ciò che non è stato scritto appositamente per il palcoscenico è più bello: il teatro è talmente potente che rafforza la parola ed è dotato di quella essenzialità per cui puoi cambiare tempo e luogo in pochi secondi, basta che ti sposti di un passo e sei altrove e in un altro tempo. E questo con Buzzati va a nozze, lo sconfinamento spazio-temporale è la sua cifra.
Oggi è molto amato, grazie alla sua grande attualità.
Solo di recente mi sono reso conto di una cosa: Buzzati era dell’età di mio nonno, era nato nel 1906, ma io lo avevo sempre percepito come autore modernissimo, era un passo più avanti rispetto alla sua generazione e anche questo me lo ha fatto amare fin da bambino. Il tipo di sguardo sulla realtà era così “profetico” che i tempi lo hanno dovuto raggiungere, è lui che ha aspettato noi. Senza per questo scadere in un ribellismo fine a se stesso. Era uno che credeva in valori importanti, basti vedere la sua etica del lavoro: ha scritto per mestiere con quella costanza e puntualità che gli richiedeva il giornale, anche quando ormai era un letterato di successo. Eclettico come pochi, faceva l’inviato, creava romanzi e racconti, teneva rubriche, rispondeva persino alle domande dei bambini sul Corriere dei Piccoli… Ho avuto la fortuna di incontrare la moglie Almerina, venne a una lettura di Buzzati che feci 10 anni fa al Franco Parenti, non sapevo fosse nel pubblico, con mia grande emozione mi raggiunse in camerino. Mi raccontò che Buzzati teneva tantissimo a fare il suo articolo di cronaca tutti i giorni e quando non trovava l’idea la obbligava a prendere la macchina, giravano per Milano e lui guardava fuori, poi a un certo punto correva a casa e scriveva il pezzo! La dedizione che ha dato alla scrittura è palese, non si è mai arroccato come tanti intellettuali nella sua torre d’avorio, e questo forse ha condizionato un po’ il giudizio su di lui, dalla critica non ha ricevuto tutto il riconoscimento che gli era dovuto. Con un certo provincialismo si ha l’idea che lo scrittore è quello un po’ più selezionato, che si dà arie e non si sporca le mani con la cronaca... Pensare che in questa tournée ho trovato nella gente una passione speciale per Buzzati, anche tra i giovani.
Preoccupato sempre di dare il massimo, come fosse un giornalista alle prime armi, era uomo di grande umiltà…
La sua era l’umiltà degli uomini forti, l’umiltà dei grandi. È stato capace di raccontare le proprie fragilità con autocritica anche feroce, ma sullo sfondo c’era sempre questa potenza dell’amore come unica chiave dirimente per guardare le cose. E qui entra in gioco lo scrutatore d’anime, curioso di sondare l’uomo, di capire dove sono le screpolature, le pieghe amare, dotato di un sesto senso per cogliere tutto questo. Però io non lo definirei un pessimista: è stato prigioniero del grande successo avuto con Il Deserto dei Tartari, che nell’immaginario collettivo è considerato ingiustamente un romanzo disperato. Da anni sul telefono porto scritta una frase del Deserto, «Resisteva in lui fin dalla giovinezza un presentimento di cose oscure, la sensazione che le cose migliori dovessero ancora accadere»: è spettacolare come riesca in una duplice dimensione a sintetizzare l’inquietudine profonda della condizione umana e insieme la speranza. Questa frase, come tutto il Deserto, da una parte sembra una condanna ma dall’altra è una porta sempre aperta!
Con che criterio ha scelto quali racconti portare a teatro?
È stata una tragedia, li avrei voluti tutti. Ma ho cercato di restituire le tematiche fondanti di Buzzati, il destino, la vanità, l’attesa, il tempo giusto per fare le cose prima che sia troppo tardi e l’occasione sfumi per sempre… Tanto che concludo con un piccolo episodio personale: ho ibridato questa antologia teatrale con il ricordo di una conversazione avuta con mio padre tanti anni fa guardando il mare. Parlava poco, ma di punto in bianco seduti sulle rocce sentii le sue parole, «ti sconsiglio vivamente di continuare ad aspettare». Gli chiesi a cosa si riferisse, “in generale”, mi disse: «C’è il rischio che a forza di aspettare tu ti accorga di aver consumato tutto il tempo che avevi a disposizione». Mi si è stampato a caratteri cubitali nella mente, ed è un finale assolutamente buzzatiano.