Quando oggi si utilizza un termine come "impero" è piuttosto scontato rimanere schiacciati dal peso delle suggestioni e cedere ad analogie sin troppo semplicistiche. È proprio per evitare queste distorsioni che Herfried Münkler – docente di Teoria politica all’Università Humboldt di Berlino e vivace protagonista del dibattito tedesco – ha cercato di ricostruire la struttura ideal-tipica della forma imperiale, indagando esperienze fra loro lontanissime nel tempo e nello spazio. Il frutto principale di questo lavoro è soprattutto
Imperi (Il Mulino 2008), un testo diventato in pochi anni un saldo punto di riferimento, in cui si scorge l’eco delle riflessioni di Max Weber e Carl Schmitt. Ovviamente è Roma a fornire il riferimento – soprattutto ideale – a tutti gli imperi successivi. Ma l’idea dell’impero percorre carsicamente la storia degli ultimi duemila anni. Tanto che Münkler intravede addirittura i contorni – ancora molto sfumati – di un futuro Impero europeo. Non certo un impero globale, ma un impero capace di affrontare i problemi posti da un "grande spazio".
Alcuni anni fa, mentre molti discutevano dell’era unipolare, lei preferiva parlare degli Stati Uniti come di un "impero". Oggi cosa resta di quell’"impero"?L’idea dell’era unipolare è legata a un momento storico particolare, e cioè alla fase immediatamente successiva al crollo dell’Unione Sovietica. La teorie dell’impero assumono invece una prospettiva temporale più ampia, scandita dai lunghi cicli storici di ascesa e declino delle grandi potenze. In una simile prospettiva, ai periodi di debolezza di un impero possono anche seguire fasi di ripresa. Ed è quello cui stiamo assistendo nel caso degli Usa. In altri termini, non penso che siamo in un’era "post-americana", perché il potere degli Stati Uniti, sotto il profilo economico, militare e ideologico, è ancora enorme. Quello che stiamo osservando è piuttosto uno spostamento delle questioni cruciali della politica americana dall’area atlantica a quella del Pacifico. Ma si tratta di un problema più degli europei che degli Stati Uniti. D’altronde, non vedo alcuna credibile alternativa all’ordine mondiale americano e ai suoi principi. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che la fine della supremazia americana innescherebbe un shock profondo non solo sul piano politico, ma anche sull’assetto dell’economia mondiale.
Lo spostamento verso il Pacifico, insieme all’emergere della Cina, suggerisce forse che siamo di fronte a quel "tramonto dell’Occidente" che Oswald Spengler aveva profetizzato quasi un secolo fa? Non credo affatto che oggi siamo di fronte a un tramonto irreversibile dell’Occidente, almeno nel significato proposto a suo tempo da Spengler. Ritengo però che sia visibile la tendenza a vivere dei successi del passato e a rinviare il pagamento del proprio attuale benessere. Il tasso negativo di riproduzione demografica degli europei è forse il problema più grosso, connesso con tutte le domande sulla possibilità di compensare un simile calo mediante l’immigrazione. Se gli europei non troveranno una soluzione, questo problema li condannerà sul piano globale a una marginalizzazione politica ed economica. Ma parlare di un problema non significa dire che non sia risolvibile. Al contrario, l’accurata descrizione di un problema è il presupposto indispensabile per affrontarlo con successo. Resta da vedere naturalmente se gli europei saranno in grado di farlo. L’"irreversibilità" è solo la conseguenza dell’incapacità di affrontare le sfide di un’epoca».
In diverse occasioni lei ha sostenuto che l’Unione Europea ha la possibilità di diventare un nuovo impero. La sua previsione rimane ancora valida?Sono ancora pienamente convinto che le sfide cui gli europei si trovano di fronte siano di tipo "imperiale". Dunque, se gli europei vogliono affrontare adeguatamente queste sfide, devono comprenderne innanzitutto la portata. Si tratta di questioni che coinvolgono per esempio il grado di sicurezza dei confini meridionali, nel Mediterraneo, a fronte di una vera e propria "migrazione di popoli", e che si estendono alla produzione di un ordine stabile nella periferia europea. Quando si ragiona con la categoria della statualità, si tratta di problemi che implicano l’"ingerenza negli affari interni di altri Stati sovrani". Secondo le categorie dell’ordine imperiale, invece, la capacità di intervenire nella periferia della propria regione, dopo il fallimento gli Stati, assume un ruolo cruciale. Parlare dell’Europa come di un attore imperiale significa dunque, prima di tutto, riferirsi alla garanzia della sicurezza e alla stabilizzazione delle aree poste ai margini (i Balcani) e alla periferia (Nordafrica, Medio Oriente) del "grande spazio" europeo».
Oggi però l’Europa sta attraversando una fase piuttosto problematica. Quale sarà il suo ruolo nel prossimo futuro?È la dimensione delle sfide che ha condotto l’Ue verso la sua crisi odierna. Insieme, naturalmente, al fatto che quasi tutti i Paesi europei, Germania compresa, hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Si può descrivere la politica del debito come una forma di consumo del futuro nel presente. Anche se molti di noi non lo vogliono ammettere, ci troviamo di fronte a un bivio. Dobbiamo decidere se vogliamo accettare o meno le nuove sfide. Questa domanda non va intesa nel senso del tramonto dell’Occidente, o di altre immagini del genere, ma semmai come una domanda sui rapporti che gli europei avranno con gli Stati Uniti. È qui che il discorso sull’era post-americana ha un senso. In altre parole, gli europei devono chiedersi se nel futuro potranno ancora aspettare che (come nei Balcani, durante gli anni Novanta) siano gli Usa risolvere tutti i problemi che non riescono a padroneggiare. La risposta non è scontata. Ma dipende dal fatto che siamo o meno disposti ad accettare la nuova sfida. Una sfida che non è certo quella di impero globale. Ma, piuttosto, quella di un Grossraum: un "grande spazio" che richiede strumenti "imperiali"»