Vujadin Boskov mentre studia la tattica con Vialli e Mancini alla Sampdoria
«Il mio sogno? Scrivere il libro delle mie memorie...», disse Vujadin Boskov nella sua ultima intervista la diede al collega di “Libero” Alessandro Dell’Orto - prima di lasciare l’Italia e tornarsene in Serbia, nella natìa Begec dove era nato nel 1931. E lì, nel piccolo paese che lo aveva visto muovere i primi passi nel calcio, giorno dopo giorno la sua memoria lucida e vivace andò affievolendosi, fino a piombare nel tunnel buio dell’Alzheimer nel quale si spense per sempre. Era il 27 aprile 2014. Ora però le sue memorie si riaccendono nel libro documentatissimo di Danilo Crepaldi, che fin dal titolo, Pallone entra quando Dio vuole (edito da Urbone Publishing, www.urbone.eu. pagine 324. euro 16 - prefazione della figlia Aleksandra Boskov -) fa capire quali siano state le due grandi fedi professate da Boskov. Il calcio è stata la religione del suo tempo privato, in una ex Jugoslavia in cui ha “combattuto”, in campo, anche per Tito. Una vita da mediano quella del giovane “Vujke” iniziata con quella che considerava la sua prima vera fidanzata, la squadra del Vojvodina. «Io non ho mai tradito Vojvodina», ha ripetuto fino alla fine davanti agli occhi innamorati della donna di una vita, la bella e gioviale moglie Jelena. Oltre mezzo secolo insieme, cambiando città, case - acquistandone sette - nelle varie tappe professionali (Olanda, Svizzera, Spagna e Italia) di un’esistenza da autentico nomade del Fudbal. Un predestinato Boskov, a 17 anni entra nella nazionale slava e ci rimane per 57 partite ufficiali, in cui con orgoglio ricordava: «Non sono mancato un minuto». Spirito serbo, fiero, tenace, ma sempre leale. «Mai preso un cartellino giallo da giocatore ».
Fairplay dell’uomo olimpico: argento ai Giochi di Helsinki del 1952 che ai «plavi» della nazionale della Jugoslavia valse l’encomio di Tito, e per lui la concessione in premio di un piccolo appezzamento di terra, «a Novi Sad, vicino al Danubio ». Un dono che per molti fece dello zio Vujadin un adepto del regime comunista. Niente di più falso. Il ragazzo di Begec fu capace di respingere anche il pressing dei capi della “nomenklatura” che lo volevano alla Stella Rossa e al Partizan Belgrado. «Fudbal je fudbal, politika je politica ». Il calcio è il calcio la politica è politica, sentenziava traghettando dal bel Danubio blu al Fiume Giallo cinese, ospite a sorpresa (nel 1955) alla mensa di Mao Tse- tung. «Ci misero benda e portarono in un luogo segreto. Tolta benda eravamo a cena con Mao. Ma la sorpresa vera fu il giorno dopo: ci dissero che avevamo mangiato polpette... di cane». È una delle tante storie che raccontava, anche nello spogliatoio, condendole con una narrazione degna dei grandi scrittori russi e con l’ironia della migliore tradizione aforistica serba, di cui rimane un maestro insuperato.
Maestro di buone maniere anche dinanzi alle orde barbariche degli stadi. «Gentilezza costa nulla e compra tutto», amava ripetere nei tanti idiomi impastati che ne hanno fatto, anche per bagaglio culturale, un Helenio Herrera balcanico. Vujadin l’alchimista slavo, un “brasiliano dell’Est” ma sempre razionale: «Preferisco perdere una partita con 6-0 che sei partite per 1-0». Tornando al Boskov calciatore, dopo essere sbarcato un anno alla Samp (stagione 1961-’62) chiuse la carriera allo Young Boys, a 33 anni. «Pallone va più forte di mio piede», disse una sera rincasando. Intanto, durante un allenamento mister Patek si era fatto male a un ginocchio e ne aveva ereditato il fischietto magico che equivaleva alla nomina sul campo di allenatore-giocatore. Dalla Svizzera, «Paese troppo ricco per il calcio», cominciò l’avventura del più sagace e divertente dei mister avvistati alle nostre latitudini. Il primo titolo dalla panca, Boskov lo vinse alla metà dei ’70: sotto il cielo d’Olanda alzò la coppa nazionale alla guida del Den Haag. Dopo il Feyenoord visse la stagione aurea alla “Casa Blanca”, in cui entrò proclamando: «Il Real Madrid è uno stato dentro lo stato».
Nello stato delle merengues vinse una Liga e una Coppa del Re, allenò campioni del calibro di Santillana e Juanito ma soprattutto formò un discepolo, il ct spagnolo più vincente di sempre, Del Bosque che di Boskov dice: «Tutto quello che ho fatto lo devo a Vujadin, l’uomo del rinascimento del calcio». Un rinascimentale che svernò due stagioni a Gjon prima di accettare la sfida di Italo Allodi: «Vieni in Italia, la Juve ti vuole». Il padre di tutti i ds italici aveva convinto Boniperti a puntare sull’eccentrico slavo, ma la condizione del presidente juventino fu: «Prima passi da Ascoli». Il padre patron Costantino Rozzi, esonerata la sua creatura Carletto Mazzone, prima convinse Boskov nell’impresa disperata di salvare l’Ascoli dalla B e poi a restare alla guida dei bianconeri anche l’anno seguente nel torneo cadetto. Come Rozzi fece a convincerlo a fermarsi (riportando subito l’Ascoli in A) rimane un mistero, mentre il ritratto del popolo del Del Duca per lo zio Vujadin era chiarissimo: «Ascolano o con piedi sottoterra o con piedi sopra cielo, mai ascolano con piedi sulla terra».
La Juve dopo il campionato capolavoro di Ascoli non mantenne la promessa (la diceria del «Boskov comunista » spaventò l’Avvocato che pose il veto) e così salì al volo sul treno di ritorno per Genova, sponda Samp. Dal presidente Paolo Mantovani si presentò spiegando che «squadra è come pianta: devi piantare semi, curare, annaffiare. Io dovere ancora piantare semi e tu volere vedere pianta adesso? Impossibile». L’impossibile divenne realtà al comando di quella mitica scapigliatura doriana con la quale compì il suo capolavoro assoluto: lo scudetto della Samp, stagione calcistica, forse irripetibile, 1990-’91. I segreti di quel trionfo? «Date palla a Gianluca Vialli e poi corrette ad abbracciarlo». Vialli, il suo pupillo. Quel «Gianluca tu sei come cervo che esce di foresta», coniata apposta per consolarlo dopo una delusione amorosa. Zio Vujadin il più amato dai doriani ma non esente dagli strali feroci dei detrattori che diffusero la leggenda metropolitana secondo la quale la formazione era esclusiva della triade Vialli-Vierchowod-Mancini.
«Ascoltavo e dicevo a tutti “sì... hai ragione”, poi però formazione decidevo con mia testa», confessò Boskov passato alla Roma giusto il tempo di lanciare il “Pupone” Francesco Totti: debutto a 16 anni, il 28 marzo del ’93. Poi ripiegò su Napoli («bella città ma tutti parlano solo di Maradona ») e infine l’ultimo atto della sua lunga storia di condottiero delle panchine di club lo scrisse a Perugia (dove ha lasciato anche il fischietto di Patek), salvando dalla B il club dei Gaucci che irriconoscenti lo licenziarono per “insubordinazione”. Del resto la riconoscenza per lui era «come mucca di Bosnia: prima abbiamo riempito secchio di latte e poi gli abbiamo dato un calcio». Con il calcio ha chiuso, nel 2001, da ct dell’ultima Jugoslavia, e prima di dire «ciao amore» a Jelena, ne ha scrutato l’abito e ridendo deve aver pensato: «Allenatori sono come le gonne: un anno vanno di moda le mini, l’anno dopo le metti nell’armadio».