Un "paesaggio di riso" in 9 fotografi per la Terra (Contrasto) (Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia)Nel suo studio in via San Michele del Carso a Milano, ci sono volumi e cataloghi fotografici ovunque, e barche di legno – la sua passione. Si affaccia su un terrazzo con ulivi e limoni. «Circondarsi di verde è fondamentale per soddisfare gli occhi, per esprimersi e liberare la mente», dice mentre sposta lo sguardo sui tetti di una Milano sempre sorprendente: «Devo molto a questa città e agli incontri che mi ha permesso di fare. È la città del lavoro e della creatività. Lo era ai miei tempi, continua a esserlo, anche in maniera diversa: prima era più provinciale, ora più internazionale; prima più genuina, ora più “costruita”, ma offre grandi potenzialità. Quando sono arrivato qui, ancora alle prime armi, andai a trovare Ugo Mulas, che era già il grande fotografo che conosciamo tutti. E mentre mi mostrava le sue foto, io una dopo l’altra commentavo: “bellissima”, “bella, bellissima”. E lui: “Se dici un’altra volta bellissima ti caccio via, perché mi offendi”. “Ma cosa devo dire, allora?”. “Buona. Perché la foto bella può essere tecnicamente a posto, piacevole, però può non raccontare niente. La buona fotografia può essere mossa e sfocata, ma racconta, parla. L’importante è fare buone fotografie”. È stato un grande insegnamento, la prima vera lezione di fotografia. In tutta la mia carriera ho cercato di fare allora delle buone fotografie. Alla fine ne ho fatte tante belle, e poche buone…». Berengo Gardin sorride, gioca a fare il modesto, mentre sa di averne fatte tante di “buone”. Lo attesta uno scritto autografo di Henri Cartier-Bresson, appeso su una colonna, alle sue spalle: «A Berengo, con amicizia e ammirazione ». Il maestro dell’“istante”, conosciuto tramite l’amico Ferdinando Scianna, negli anni parigini che al giovane fotografo regalarono incontri importanti. A partire da Jean-Paul Sartre, con cui «a volte andavo a vedere film western». Ci sono tanti lavori di Berengo Gardin che raccontano la visione italiana. Come quello sulla Olivetti, «l’azienda-comunità, capace di un investimento straordinario sulla cultura, la salvaguardia delle tradizioni. Il progresso che si sposava ancora con una società contadina ». O Dentro il lavoro (1978) e Dentro le case (1977), insieme a Luciano D’Alessandro, con cui ha fotografato come vivevano realmente gli italiani, dai poveri delle baracche fino all’alta borghesia. C’erano microcosmi da raccontare, specchio di storie più grandi, come il libro su Luzzara (1976) con Cesare Zavattini, vent’anni dopo il libro di Paul Strand, Un paese. «Io volevo fare emergere l’anima sociale di Luzzara. Fare buone foto, non solo poetiche e belle». Manicomi. Colorno, Parma. (Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia)E poi quella sfida con Carla Cerati che doveva fotografare per “L’Espresso” un manicomio di Basaglia: «Mi chiese di accompagnarla. “Ben volentieri – risposti – ma così ti faccio concorrenza”. Ne è nato un libro Morire di classe (1969) che ha mostrato a tutti cosa volesse dire essere chiusi in un ospedale psichiatrico. Non dovevamo fotografare i malati, ma la loro condizione, denunciare la dignità violata. Ai malati raccontavamo il nostro progetto, facevamo assemblee insieme e capivano che era nel loro interesse, per questo ci davano il consenso a farci entrare». La condizione manicomiale, fu per l’Italia dell’epoca un vero choc. Il Sessantotto della fotografia italiana passava anche per queste immagini e attraverso un lavoro così prettamente sociale, riscopriva una sua urgenza, una centralità, un valore, la capacità di indignare. Una inchiesta per immagini di Berengo Gardin che Contrasto ha ripubblicato di recente, con il reportage completo, in Manicomi (pagine 168, euro 32,00). La fotografia che racconta, testimonia e colpisce.
Manicomi, Ferrara. (Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia)Oggi la fotografia probabilmente rischia di fare altro, in una società dell’immagine che vive di esibizionismi. Di certo, con il digitale la fotografia è diventata alla portata di tutti, senza la “barriera” del rullino e della stampa. «Come tutte le rivoluzioni, sono in meglio e in peggio. In meglio perché ha avvicinato un sacco di gente alla fotografia. Purtroppo troppa gente. E che la fa male, senza regole. Ma il difetto non è tanto nelle persone, quanto nelle macchine: fanno tutto loro», dice l’ “analogico” Berengo Gardin. «Il mio slogan, quello che trasmetto ai miei allievi, è: “Prima pensa, poi, casomai scatta”. Lo slogan del digitale è “Non pensare, scatta”. E se non viene, con il computer si sistema tutto. Scattare a mitraglia ha eliminato il pensiero. È la fine della fotografia». «E poi – riprende il ragionamento, Berengo Gardin – non esisteranno più archivi. Tante foto si fanno, si vedono sul computer e non si stampano più. Io ho un archivio di un milione e cinquecento foto: le puoi toccare».C’è una sola foto in digitale di Berengo Gardin. «Rientravo a casa e due ragazzi si baciavano davanti al portone. Era una scena molto bella. Sono corso su. E per sbaglio ho preso una macchina digitale che mi avevano chiesto di provare, ma io tenevo lì, inutilizzata. Li ho fotografati. Ho subito stampato la foto e ho fatto fare il negativo in pellicola. È un cimelio. Le foto digitali sono piatte, metalliche. Non è solo questione di “scatto”. È proprio un’altra foto. La pellicola è vera, regala una sensazione impagabile». Berengo Gardin ci mostra le sue vecchie macchine. Una Rolleiflex degli esordi. E poi la Leica del 1954. «Questa non mi ha tradito mai. Perché dovrei farlo io?». Il signore della fotografia ci saluta per raggiungere il suo buen retiro di Camogli. In quell’angolo di verde e mare, di bellezza e profumi che forse gli fa dimenticare l’Italia in declino.
Gianni Berengo Gardin © Colomba D'Apolito