L’indimenticato Beppe Viola (1939-1982)
Beppe Viola lo trovi ancora, ma sempre di meno, negli occhi agrodolci di chi è disposto a perdere tutto in cambio di una battuta geniale, spiazzante, fatta con l’urgenza di ribaltare un luogo comune, un potere, in sintesi – anche se qui la brevità è sconsigliata – di sgonfiare un pallone gonfiato. Lo incroci, ma sempre di meno, nei bar di Milano dove non c’è bisogno di pagare per sedersi, dove magari riesci a tirare tardi senza che qualcuno arrivi a cacciarti perché altrimenti riduce l’incasso. Lo trovi, ma sempre di meno, in quelli che pensano che l’influencer sia una specie di febbre arrivata da un paese esotico e che se non metti subito la sciarpa rischia di peggiorare, perché il vero social è guardarsi in faccia, discutere, mandarsi a quel paese senza pietà, e ritrovarsi nello stesso posto il giorno dopo, freschi come rose. Lo senti tra chi biascica la lingua da iniziati dell’Ippodromo e sistema le sillabe al contrario, uno slang immortale, una “tavi al riocontra” che contagia anche quei milanesi nuovi – che poi sono semplicemente milanesi – che non arrivano più solo dal Sud ma dai quattro angoli del mondo. E poi ci sono dei giorni grigi in cui lo prendi in pieno al Beppe Viola (nato a Milano nel 1939 e morto dopo un Inter-Napoli, il 17 ottobre 1982), come un frontale emotivo contro un tram – a Milano scarellano sempre quelli lì bellissimi, arancioni, eleganti come salotti – a ricordarti certe spine che adombrano il cuore, una malinconia che non passa, quella tenerezza indispensabile che «fuori piove un mondo freddo». Vincenzina, certo, quella della fabbrica scritta con il “fratello” Enzo Jannacci. Ma anche un tocco insuperato per sensibilità e inclusione, politico, nel senso più alto: l’operazione tutela delle minoranze, ché a dirlo buoni tutti, a praticarlo davvero (o a cantarlo) un po’ meno. E poi c’è Milano. Che è così tanto dentro Beppe da essersene dimenticata per anni, prima che nel giugno 2021 il Comune stabilisse l’intitolazione del giardino pubblico della sua Via Sismondi, angolo Lomellina.
Un posto bello dove giocare, limonare, fare comunità e presentazioni di libri. C’è sempre la Rai in Corso Sempione, dove Beppe rivoluzionò il linguaggio sportivo da una stanzetta-miniera da cui estrarre chicche irripetibili: Rivera sul tram, Bruno Conti nel ritiro blindato degli azzurri desiderabile come Ornella Muti, il derby Inter-Milan così brutto da diventare un “derbicidio”, telecronache che restituivano dignità ad eventi inconcepibili come Giochi sotto l’albero. «Signore e signori, bambini e amici sono Beppe Viola. Scusate se sono compromesso in questo gioco», le immagini da un palazzetto del ghiaccio austriaco rimandano una buffa sfilata su pattini di uomini con bandiere e costumi tradizionali accompagnati da pupazzi a forma di orso ancora più alti di loro «ma sono impiegato alla Rai a tempo pieno e avendo quattro figlie da mantenere, non posso esimermi dall’essere qui con voi a trascorrere la vigilia di Natale». C’è ancora San Siro, bello come una astronave, allora aveva solo due anelli e tanto futuro, adesso chissà. Forse quello nuovo si chiamerà Populus, come un colossal di serie B. Contenti loro, direbbe il Beppe tirando una generosa boccata dall’eterna sigaretta. Ci associamo, magari consolandoci con un ultimo bicchiere da Gattullo, inteso come bar di riferimento e Ufficio Facce, ricettacolo di personaggi stralunati e serata interminabili. Chissà che fine hanno fatto Dino e Furbin, scommettitori clandestini e presenze fisse del locale, spariti per sempre dopo aver bancato a cifre impossibili l’Italia campione al Mundial di Spagna e volatilizzati, mai più rivisti, rintracciati, irreperibili. Pare che nel ’68 Dino avesse chiamato dentro il bar Furbin, che mangiava un cono sul marciapiede. Il televisore rimandava il salto record di Bob Beamon ai Giochi di Città del Messico, e davanti allo stupore dell’amico per un gesto memorabile, Furbin liquidò la faccenda con una battuta fulminante: « Bela forza, l’ha ciapa la rincursa... » («Bella forza, ha preso la rincorsa»). C’è ancora la villetta di Via Arbe messa giù a marchettificio, dove far lievitare sperimentazione e cazzeggio intelligente, testi, idee, lavoro e merende luculliane con gli amici di sempre: Bruno Pizzul, Sergio Meda, Gianni Mura, Giorgio Terruzzi. Ci passava spesso anche Enzo Jannacci, l’amico di una vita: alti e bassi certo, ma l’Amico. Canzoni, sceneggiature, il cabaret al Derby Club come suggello di una collaborazione prolifica e profondissima.
Facce e nomi da Derby, servirebbe un album di figurine di una generazione che avrebbe travolto l’Italia di risate e che è cresciuta, disordinata e scomposta, sul palco di Via Monte Rosa: Cochi e Renato, Paolo Villaggio, Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Giorgio Porcaro, Felice Andreasi, Giorgio Faletti, Guido Nicheli (per tutti il “Dogui”) promosso dal pubblico al palco. Altroché repertori di tre minuti: si stava in scena fin quando non si strappava il primo applauso, nel retropalco invece si rimaneva fino all’alba – quante, eh? – con un sottobosco di personaggi incredibili, in prima fila malavita e imprenditori con fatturati da urlo, gente con soprannomi rimasti nella memoria (il Bistecca, Le Mans – un velocissimo antesignano dei moderni Cavallini – , Ninone Del Tonno) e improbabili piazzisti che si aggiravano tra gli avventori meno accorti: «Ha mica bisogno di un po’ di scarpe destre? Ne ho lì un Tir...» (di dubbia provenienza, ca va sans dire). Commuove sapere che quel palco è salvo, tutelato dai ragazzi del Centro Sociale Cantiere, in attesa che se ne accorga l’Unesco per tributargli – magari alla memoria – il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità per aver ospitato cani con i capelli, buchi neri in fondo al tram, vite belle anche senza ombrello, Repellenti sugli skettini, gente che parla coi limoni, giocate da padre di famiglia e vite tritate. Anche quarant’anni dopo, insomma, Beppe Viola resta un magma incontenibile. Il 17 Ottobre al Teatro Franco Parenti ci sarà una grande festa per ricordarlo. Non ci sarà la sua Franca, la compagna di una vita, scomparsa pochi mesi fa e baricentro emotivo di tutto l’amore che Beppe ha lasciato. Ci sarà invece tutta quella comunità di SenzaBeppe che non ha mai smesso di volergli bene. Ci sarà Milano, così diversa da quella di allora. Una città verso cui è legittimo rivendicare la nostalgia, anche se non la si è vissuta. Anzi, a stupirsi dello stupore di chi chiede «Perché, interessa? »; e a piangere un po’, porca vita, perché Vincenzinaè roba nostra anche se delle fabbriche abbiamo visto solo lo scheletro, che però – zitto zitto – ti racconta più di un’influencer troppo impegnata a farsi selfie per guardare all’insù.