I beni culturali possono diventare per l’Italia una grande risorsa di sviluppo. Servono però manager capaci di rilanciarli e di gestirli come aziende produttrici di reddito e occupazione. Serve una strategia nazionale capace di rilanciare insieme cultura, turismo e agricoltura, senza dimenticare la necessità che la scuola torni a insegnare l’amore per l’arte e per il "bello". Tutti argomenti che Emanuele Francesco Maria Emmanuele, economista e presidente della Fondazione Roma affronta nel suo recente libro Arte e Finanza (Edizioni scientifiche italiane, pagine 268, euro 31) nella convinzione che il nostro Paese possa diventare teatro di «un nuovo Rinascimento».Lei parla di cultura come decisiva per il rilancio economico: in che modo visto che molte aziende culturali in Italia oggi sono in crisi profonda?«Le aziende culturali sono in crisi profonda spesso per difetto di managerialità e carenza di professionalità, oltre che per l’abitudine, tutta italiana, di considerare il patrimonio artistico come un bene unicamente da tutelare e non da valorizzare, in base alla legge Bottai, che risale addirittura al 1939. Se si cambiasse approccio, avvicinandosi ai modelli applicati in altri Paesi, la cultura, che spesso definisco l’"energia pulita" di cui disponiamo, potrebbe contribuire al rilancio dell’economia. Oltretutto il nostro Paese non ha più nient’altro. L’industria di Stato è stata venduta a capitalisti senza capitali. Le grandi aziende private delocalizzano. L’agricoltura attende una legge che manca da almeno 30 anni. La ricerca scientifica langue e i suoi prodotti vengono spesso valorizzati da altri Paesi. Grazie alla cultura, invece, possiamo trasformare il nostro Paese in una grande attrattiva che generi profitto e occupazione».In tanti anni, però, non ci sono stati governi che si siano mossi in questa direzione. «Il fatto che i governi abbiano ritenuto di non dover valorizzare la cultura dimostra la carenza di sensibilità su questi temi. Nel nostro Paese, indipendentemente dal colore degli esecutivi, si discutono riforme che rimangono lettera morta, come quella della legge elettorale o della burocrazia, o il taglio della spesa pubblica improduttiva, che permetterebbe di liberare risorse economiche. In questo modo, dal famigerato 0,1% del Pil, che adesso lo Stato devolve alla cultura, ci si potrebbe avvicinare alle percentuali di altri Paesi europei, che investono maggiormente nel settore. Anche se resterebbe il problema della capacità di spesa, visto che i residui passivi che si accumulano nelle sovrintendenze si aggirano intorno al 43-44 per cento».Nel libro lei cita Martino V come esempio di governante capace di progettare il rilancio partendo dalla cultura. Ma oggi può ancora essere un termine di paragone?«Assolutamente sì. La situazione della Roma post-avignonese era di gran lunga peggiore di quella in cui si trova l’Italia di oggi. All’epoca di quel grande papa, lo Stato della Chiesa era desertificato dall’abbandono della popolazione, afflitto dalla malaria, devastato dal banditismo. L’intuizione di considerare la cultura il motore dello sviluppo consentì la trasformazione di quel territorio nella meraviglia che è ancora oggi davanti ai nostri occhi». Di solito quando si parla di rilancio della cultura in Italia si pensa allo sfruttamento economico del patrimonio che ci viene dalla storia. Ma il Rinascimento fu qualcosa di radicalmente nuovo, di artisticamente rivoluzionario. C’è la possibilità di dare vita a un nuovo rinascimento?«Ogni epoca ha la sua stagione artistica, il suo "bello", la sua capacità creativa. L’arte e la cultura sono il collante della civiltà, aprono al dialogo, consentono l’abbattimento delle barriere sociali, etniche e, in prospettiva, di quelle religiose. Il nuovo Rinascimento può verificarsi. Ha visto i risultati delle aste di quest’ultimo periodo? Le opere dei contemporanei hanno raggiunto prezzi stellari. Vuol dire che la fame di "bello", di creatività è manifesta. Il nuovo Rinascimento è possibile proprio perché l’esigenza della bellezza è e sarà sempre in ognuno di noi».Rilanciare la cultura vuol dire rilanciare il turismo e, in molti casi, anche l’agricoltura (paesaggi storici), tre risorse essenziali per l’Italia. Il futuro è nelle nostre radici?«Il futuro è nelle nostre radici, ne sono certo. Prenda l’hinterland romano. Ci sono meraviglie ineguagliabili come Caprarola, Capranica, Ronciglione, Sutri. Prenda la Val d’Orcia: Montalcino, Montepulciano, San Quirico, Bagno Vignoni, Sarteano, Cetona, Radicofani, Pienza, vero e proprio gioiello urbanistico. Nessun Paese possiede così tanti tesori concentrati in un territorio così piccolo. Questi sono luoghi in cui l’agricoltura si fonde mirabilmente con la storia e con l’arte, emblematici per la possibilità di sviluppo del turismo. È evidente che tutto questo non accade per l’insensibilità degli amministratori locali e per la visione carente a livello nazionale. Le nostre radici, antiche ma ancora moderne, la grandiosità del pensiero, della capacità di creare arte, di vivere in un contesto magico, possono permettere al futuro di diventare realtà».Che caratteristica devono avere le aziende culturali efficienti?«La gestione di un’impresa culturale, a differenza di quello che pensano spesso i sovrintendenti, non è diversa da quella di una qualsiasi altra azienda. Purtroppo molti funzionari statali ritengono che l’arte sia una proprietà privata e credono che sia preferibile limitarsi a tutelarla, magari in uno scantinato polveroso. Fatto ancora più grave, sono ostili al privato, anche no profit, che, volendo valorizzare il patrimonio artistico, è disponibile anche al restauro. Per gestire le imprese culturali non ci vogliono solo studiosi di storia dell’arte, c’è bisogno di manager in grado di produrre profitti e non buchi di gestione».Ci sono esempi che possono costituire una guida in Italia e all’estero?«Gli esempi sono tutti stranieri. Il solo Louvre, come viene spesso ripetuto, incassa più di tutti i musei pubblici italiani, nel loro complesso. Il Moma di New York e la Tate Gallery londinese sono altri modelli virtuosi. In Italia, al contrario, faccio fatica a capire come sia possibile che a Napoli il tesoro di San Gennaro venga visitato da appena tremila visitatori all’anno».Investire in cultura vuol dire anche ricerca, editoria, scuola, università…«Io partirei dalla scuola. Prima la storia dell’arte era considerata una materia di primaria importanza. Questo consentiva di arricchire la sensibilità di uno studente, trainava a sua volta la ricerca, la produzione libraria, l’editoria, l’università. In questa catena virtuosa tutti i segmenti avevano lo stesso valore. Da molto tempo nel nostro Paese la cultura viene considerata residuale, marginalizzata, e il nuovo Rinascimento rischia di diventare un’occasione mancata».
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