venerdì 29 aprile 2016
​​L’amico Bonaga: «Lucio era credente e generoso: le prime lire guadagnate con la musica le divise con me».
Lucio Dalla, «Una vita che è un'opera d'arte»
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La letteratura su Lucio Dalla si spreca. Se ne sono occupati e se lo sono conteso intellettuali, critici musicali, politici, sociologi, storici, giornalisti, linotipisti… Per non dire dei registi, dai Taviani a Fellini a Verdone. Il “fenomeno Dalla” ha sempre affascinato e incuriosito il mondo dei media, ma ha soprattutto catturato le orecchie di milioni di italiani in cinquant’anni di storia e di canzoni. Proprio perché a volte «per essere felici basta un niente, magari una canzone o chi lo sa». E forse Dalla ha incarnato quell’ineffabile «chi lo sa» ancor più dell’alchemica magia di una canzone. Sono ancora tanti i misteri della vita e dell’arte di questo folletto della musica, su cui ci sarà sempre da scandagliare alla ricerca d’altro o soltanto per amore. Ed è quello che ha fatto Luca Beatrice in Per i ladri e le puttane sono Gesù bambino (Baldini&Castoldi, pagine 240, euro 16,00). Il titolo del libro è il verso censurato nel 1971, prima della partecipazione al Festival di Sanremo, diventato poi 4/3/1943. La canzone rivelatrice di Dalla, quella della consacrazione. Beatrice da critico d’arte di professione mette in mostra vita e opere di Lucio Dalla, come recita il sottotitolo. Ne esce un Dalla pittore di canzoni. Si parte dal bambino già artista autodidatta tra fisarmonica e clarinetto, eccezionalmente curioso eppure incapace di essere un bravo studente, facendo la spola da un collegio all’altro mentre mamma Jole (modista) se lo portava appresso da Bologna a Manfredonia a vendere alle signore i suoi capi esclusivi. Poi i primi festival jazz a Bologna, il palco condiviso con Thelonious Monk e Chet Baker, «l’invidia» (confessata decenni dopo) dell’allora clarinettista Pupi Avati estromesso da Dalla per innata superiorità dalla Rheno Dixieland Band, l’approdo a Roma alla Second Roman New Orleans Jazz Band (con la sua prima incisione) e al pop con i Flippers che accompagnavano Edoardo Vianello. Esordi che Luca Beatrice racconta con un ricordo dell’amico d’infanzia di Lucio, il filosofo Stefano Bonaga. «Le prime diecimila lire che Lucio ha guadagnato, suonando ai giardini Margherita, le ha divise con me», svela Bonaga. Che continua: «La mamma gli ha cucito la camicia con cui è andato per la prima volta al Festival di Sanremo, però poi aveva aggiunto: peccato la indossi Lucio, è troppo brutto». Un dettaglio rivelatore di un’infanzia che Dalla stesso ha sempre ricordato come infelice. Complice l’assenza del padre, morto quando Lucio non aveva che pochi anni, ma mai comunque presente. Tanto che molti sono i dubbi sulla reale paternità di Dalla. I difficili anni Sessanta di Dalla col suo canto un po’ “negroide” tra soul, scat e beat, l’inizio con il suo mentore Gino Paoli, i primi invenduti ma apprezzati dischi, il botto a Sanremo con 4/3/1943 e l’anno dopo con Piazza Grande scritta con Ron, fino all’incontro decisivo, ma conflittuale, con Roberto Roversi, l’intellettuale comunista i cui primi saggi di critica letteraria apparvero nel 1941 sull’“Avvenire d’Italia”. Tre album spartiacque per il mondo della canzone, quelli coi testi politici e lirici di Roversi musicati da Dalla. Per Lucio un sudato, frustrante ma decisivo apprendistato concluso con un polemico divorzio all’uscita di Automobili( Roversi lo disconosce e si firma Norisso). Una palestra vincente per consacrarsi cantautore e inanellare tre capolavori, dal 1977 al 1980: Come è profondo il mare, Lucio Dalla e Dalla. Dentro brani comeCara, il cui testo nei crediti figura di Dalla ma è stato invece scritto da Bonaga. Un Dalla febbrilmente comunicatore. E sempre più cercatore di Dio, «a modo mio». Come cantava già in Piazza Grande. Padre Bernardo Boschi e padre Giuseppe Barzagli sono i suoi costanti riferimenti in San Domenico, a Bologna. Ma frequenta sempre più anche padre Enzo Bianchi e soprattutto, negli ultimi anni, il teologo Vito Mancuso, che ospita con la famiglia per alcuni mesi nella sua casa (ora sede della Fondazione Dalla) in via D’Azeglio, a Bologna. «Mi colpì il grande crocefisso sopra il suo letto – racconta Mancuso a Beatrice –. Si ritirava spesso in meditazione la sera sul balconcino a pregare. Intendeva la fede come un riconoscimento verso la vita». Nel fortunato album Canzoni alla fine ci sono due tracce fantasma. La prima è un remake di Disperato erotico stomp, la seconda è la registrazione di Vieni spirito di Dio cantata da un frate in San Domenico, la chiesa di Lucio. 
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