Basta allora con Ginettaccio, meglio "Gino il pio", o come scrissero, negli anni neri del fascismo, ma non senza un certo sarcasmo: "Gino il mistico" e "l’arrampicatore divino". Ma queste etichette appiccicate al diretto interessato, un monumento del ciclismo come Gino Bartali, le avrebbe trovate enormemente inappropriate. Se le sarebbe strappate immediatamente di dosso, urlando furente e rosso in volto: «Basta, qui l’è davvero tutto da rifare…». Scorza ruvida, quanto rara, mai più rivista, specialmente nello scarno "mitificio" dello sport odierno. Il Gino nazionale, un uomo con la "U" maiuscola e un fuoriclasse delle due ruote che, se proprio doveva essere incensato, preferiva almeno lo si facesse per le sue tante vittorie (2 Tour de France, 3 edizioni del Giro d’Italia, 4 Milano-Sanremo) e i 700mila chilometri - li aveva calcolati - percorsi pedalando. «In realtà, in bici di chilometri ne aveva fatti più di un milione, ma a me diceva: "Se spariamo una cifra del genere penseranno che voglia vantarmi"…», ricorda il figlio Andrea che ha appena dato alle stampe un libro tenero, visceralmente intimo e familiare: Gino Bartali, mio papà> (Limina). In "quel penseranno voglia vantarmi", c’è tutta la fiera ricchezza della cultura contadina appresa da papà Torello che nella casa di Ponte a Ema - dove Gino venne al mondo il 18 luglio 1914 -, predicava quotidianamente il piacere dell’essere onesti. «Della verità non si deve mai avere paura», il primo insegnamento cristiano che nonno Torello aveva impartito ai figli, racconta Andrea, al quale il suo papà Gino («un cristiano - scrive tipicamente fiorentino, brontolone come lo sono i fiorentini»), ha trasmesso a sua volta la convinzione che «il rispetto per i dieci comandamenti, vale più di qualunque vittoria». Il vero mito di Bartali non è stato né Girardengo, né Guerra né Binda, ma Gesù di Nazareth. «Considerava Gesù il più grande dei rivoluzionari. Così come trovava straordinario l’ammonimento divino: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Era convinto che se tutti avessero seguito questo insegnamento, non ci sarebbero più state guerre e il mondo vivrebbe in pace». Precetti cristiani che il giovane Bartali aveva già chiari nella sua mente quando a 10 anni si iscrisse all’Azione Cattolica, ed erano solidi come pietre di una pieve romanica, quel giorno del ’36, in cui prese i voti di terziario carmelitano nella chiesa di San Paolino a Firenze. In ogni tappa della sua vita di uomo, di padre e di campione, c’è sempre stato un arrivo ideale a una chiesa e per la Chiesa. «La prima vittoria papà la conquistò a 13 anni e non in bicicletta, ma a piedi, in una gara podistica verso il Monastero dell’Incontro, sulle colline fiorentine». Subito dopo cominciò la grande scalata al successo, intensa e veloce come uno sprint al velodromo. Ma anche un percorso esistenziale pieno di salite più dure della petrosa Izoard, e dietro alla maglia rosa, gruppi di avversari per spirito assai distanti dall’amico ed eterno rivale Fausto Coppi: inseguitori ostili in "camicia nera". Ma la spia dell’Ovra (il giornalista Franco Monza, ndr) nel suo fascicolo personale (n° 576) poteva solo annotare: «Un tipo molto strano questo Bartali che ad ogni vittoria ringrazia sempre Dio e la Madonna invece di dedicare il successo al nostro Duce».
<+cap3>B<+tondo_bandiera>artali correva e vinceva per il popolo, per gli ultimi e per gli umili servitori di Dio. «Non si è mai visto un Giro con tanti preti venuti sulla soglia della chiesa magari con una bandierina in mano. Un Giro con tanti fraticelli che aspettavano pazientemente sotto gli alberi. Un Giro con tanti seminaristi allineati sui viali fuori porta e con tante monache che portavano fuori dal cancello della loro scuoletta le bambine che battevano le mani anche loro. Questo è un Giro di credenti», scriveva tra il divertito e il sorpreso Orio Vergani. E quando il fascismo cominciò a perseguitare gli ebrei, rispondendo all’invito del Papa, Pio XII («tramite il vescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa che lo aveva unito in matrimonio con mia madre Adriana», sottolinea Andrea) Bartali si mise a disposizione di quei fraticelli come il francescano padre Rufino Niccacci e alle suore come la clarissa suor Eleonora, per salvare il maggior numero di persone. Della "tappa" straordinaria, Firenze-Assisi (tra l’ottobre del 1943 e il giugno del ’44, la "corse" almeno una quarantina di volte) per consegnare agli ebrei in clandestinità i documenti falsi nascosti nella canna della sua bicicletta, abbiamo già parlato e tanto si è scritto a cominciare dal bel libro Assisi Underground di Alexander Ramati, ma poco si sapeva su altre gesta eroiche compiute da Bartali e che stanno riaffiorando dopo la sua morte, avvenuta il 5 maggio del 2000 (commemorata come ogni anno a Firenze nella chiesetta di San Salvatore al Vescovo con una Messa in suffragio in forma privata). «Quando papà raccontava delle tante persone salvate, subito mi diceva: "Ma questo Andrea, che non si sappia in giro…". E io ribattevo anche un po’ seccato, ma allora cosa me le racconti a fare queste storie? E lui bonario: "Il bene va fatto, ma non bisogna dirlo. Ma verrà il tempo in cui queste cose sarà opportuno farle sapere". E quel tempo ora è arrivato». Così adesso sappiamo che oltre ai tanti ebrei che Bartali ha tratto in salvo, ci fu anche il suo intervento diretto per strappare alle mani del carnefice nazista ben 49 soldati inglesi rimasti «intrappolati» a Villa Selva (Firenze). Fu l’asso del ciclismo a rompere l’assedio tedesco: «Si finse un milite fascista con tanto di divisa e baionetta, rigorosamente scarica. Gli inglesi vedendolo entrare si arresero a quello che pensavano fosse il "carceriere", mentre si rivelò il loro salvatore che li consegnò nelle mani amiche dei partigiani», racconta Andrea che nel suo libro ha inserito una testimonianza inedita e che noi riportiamo, in cui il figlio di un internato nel lager tedesco di Dachau, con la concessione della foto del suo idolo, "Bartali", riuscì a barattare la sua vita e quella di altri 20 prigionieri che così poterono far ritorno a casa.
E chissà quanti altri, grazie all’azione generosa e incessante del grande campione, hanno avuto la stessa buona sorte di quei prigionieri? «Bartolo Paschetta, alta carica dell’Opus Dei, uomo vicino a Pio XII e titolare della libreria Ave in via della Conciliazione quando lo incontravo mi diceva: «Hai un grande papà. Tu non puoi sapere quanto persone ha e abbiamo salvato». Uno di questi è Giorgio Goldenberg tornato recentemente da Israele a Firenze, per rivedere lo scantinato di casa Bartali «dove da bambino rimase nascosto per mesi, evitando la deportazione». L’avvocato Renzo Ventura, sta perorando il riconoscimento di Gino Bartali nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme, con un fascicolo inerente al salvataggio dei suoi genitori. Nuovi racconti ad Andrea sono arrivati a libro ormai in stampa, come quelli di don Arturo Paoli, parroco nell’alta lucchesia che ricorda perfettamente le soste di Bartali a Farneta, alla Certosa di Lucca, quando portava i documenti falsi per i clandestini che si sarebbero imbarcati dal porto di Genova o fuoriusciti per la Svizzera. «In un tempo senza più memoria, mi piacerebbe andare a fondo. Così, insieme alla giornalista Laura Guerra (Fondazione Gino Bartali Onlus) stiamo cercando di rintracciare tutte quelle storie che hanno avuto come protagonista mio padre». Storie sommerse di salvati (si possono segnalare a: Lg.press@libero.it), vittorie delle quali il grande Bartali si limitava a dire: «Queste sono medaglie che si appuntano sull’anima e varranno nel Regno dei Cieli e non su questa terra».